Esistono ben tre parole (slave) che indicano tre diverse cerimonie solenni degli antichi Slavi che hanno in comune il bere e l’ubriacatura finale come procedura sacrificale. Che cosa è allora il bere? Esiste una ritualità anche nell’ubriachezza?
Il bere come attività “umana” non è la semplice riposta allo stimolo della sete, come ci verrebbe di dire immediatamente, ma al contrario è un rito “sacro” ben preciso! La sete in un regime dietetico contadino su base vegetale, che è cibo costituito per ca. il 90 % e più da acqua, raramente si presenta in modo da richiedere una bevuta urgente di un qualche liquido. Insomma si beve non per sete e neppure acqua semplice, ma liquidi speciali che di solito è la donna ad elaborare e a preparare partendo da varie materie prime. Né questi liquidi, non vogliamo ancora chiamarli bevande, possono essere ingeriti così semplicemente. Occorre aspettare il momento particolare della giornata o dell’anno, da soli o in compagnia di certe persone oppure in certi luoghi.
Oggi non percepiamo più il bere in questo modo come invece lo sente il prete nella messa o nel Medioevo il volhv che levava al cielo la bevanda sacra prima di spargerla sull’altare. Eppure nei nostri usi e nei nostri comportamenti di questa sacralità ereditata dai nostri antenati non tutto è andato perduto. Ci siamo mai chiesti perché oggi nel supermercato o nel bar ci troviamo davanti ad una così vasta varietà di liquidi bevibili? A che servono? Perché sono stati messi a punto? Queste bevande sono realmente destinate a ricostituire le riserve di liquido del nostro corpo? Sicuramente sono veramente troppe, ammenocchè non pensiamo alle numerose celebrazioni della vita a ciascuna delle quali potremmo attribuire il consumo di ciascuna.
Ad esempio, in un incontro in cui stiamo per concludere un grosso affare, chi offrirebbe soltanto un caffè al partner commerciale? Nessuno, anzi, un brindisi con un qualche liquore a caro prezzo è d’uopo! E berreste un whisky la mattina a colazione? Forse voi no, ma ci sono popoli nel mondo che lo fanno! E in un pranzo di gala fareste mancare il vino? E per una vittoria conseguita non stappereste champagne?
Dunque, riflettiamo bene. Le bevande non estinguono la sete e basta, ma fanno parte integrante di riti fissati da antichi usi dimenticati, dipendono dal momento della giornata e dalla rispettiva religione! In questo modo gli smierdy si fabbricavano le bevande, e non esclusivamente per dissetarsi, ma per poterle bere solennemente!
Nel Medioevo il rito del bere aveva ancora alcuni aspetti principali. Il primo era la sacra libagione davanti agli dèi nelle celebrazioni collettive, ma poi si brindava anche per sigillare dei contratti, degli accordi o per dare il benvenuto all’ospite e, in ogni caso, quasi sempre con un liquido diverso. E si beveva per scacciare gli spiriti maligni dal proprio corpo malato o, se occorreva, si dava da bere per introdurveli a fini specifici come avvelenare o inebriare e, perché no?, per indurre certi sentimenti nell’amata, nel rivale, nell’avversario. Tantissimi e vari gli scopi del bere, quindi!
Nelle Cronache Russe è rimasta famosa la frase di san Vladimiro quando, rifiutando le prescrizioni dell’Islam contro l’eccessivo bere delle bevande inebrianti, dice al sapiente musulmano: “Alla Rus’ il bere dà la carica! (Rusi est’ veselie piti! traduz. di ACM)”, che non si deve intrepretare come un’esaltazione medievale dell’’ubriachezza, diventata ormai l’etichetta per i russi di oggi! In realtà Vladimiro è ben consapevole della sacralità delle diverse occasioni in cui, con i suoi ospiti, s’indulge in una bevuta (popòika). Se teniamo presente che Vladimiro era ancora mezzo svedese e che i suoi uomini erano Variaghi svedesi, possiamo con buona approssimazione rifarci ai costumi dei Vichinghi per interpretare meglio il ruolo della convivialità solenne e ufficiale nella nuova corte kieviana del X-XI sec. d.C. in cui bere era un atto non solito. Purtroppo il compito che ci siamo prefisso è di cercare di capire meglio la vita dello smierd e non quella dei suoi dominatori, se non quando questi incidono e influiscono sulle abitudini e i costumi dello smierd stesso. Per questo motivo delle grandi testimonianze di Ibn Fadhlan o di Ibn Rusté, non possiamo tener conto come dovuto. Al contrario sono per noi più utili a questo riguardo gli scritti di Ibrahim ibn Jaqub, l’ebreo andaluso che visitò Polonia e area baltica nel X sec. e che quindi ispirerà il nostro discorso, almeno per l’inizio della storia russa.
Ibn Fadhlan ad esempio nomina una bevanda inebriante dei Rus’ che chiama nabid (forse dallo slavo napitok?) e dice: “Sono molto affezionati al nabid e lo bevono notte e giorno. Sovente uno di loro muore con un bicchiere di nabid in mano.” Se i Rus’ menzionati sono Variaghi svedesi, perché danno un nome slavo alla loro bevanda? Oppure sono già parzialmente slavizzati? Rimane incerto…
Cominciamo allora dalla birra.
Dal punto di vista filologico occorre subito dire che i nomi usati per i diversi tipi bevuti nella Rus’ di Kiev sono di origine svedese-norrena ed è strano. Sicuramente non perché gli Slavi non la sapessero preparare, ma perché probabilmente le occasioni di berla si moltiplicarono proprio con i contatti fra Slavi e Variaghi. D’altro canto nessun Variago, con il timore di essere avvelenato o di bere una bevanda impura (ossia non ben fatta), avrebbe accettato birra preparata dalle donne degli Slavi e quindi, secondo noi, si affermarono le ricette germaniche su quelle russe, proprio perché i Variaghi furono nei primi contatti dei dominatori abbastanza duri. Dunque nel nord, se si volevano fare affari con loro, i soci Slavi nei conviti dovevano bere solo le birre che i Variaghi stessi preparavano.
Per di più quando si allestiva una spedizione vichinga nel Mar del Nord, una delle derrate che entravano nella cambusa della nave era proprio la pasta acida per far birra e pane, contenuta in un tino affidato ad un responsabile affinché stesse molto attento “a non farla morire” per il gelo e di rinnovarla di tanto in tanto! Non c’è quindi ragione di non pensare che lo stesso avvenisse nelle spedizioni variaghe nel Mar Baltico visto che la pasta acida (la madre della birra) era una delle “derrate” importanti di qualsiasi gruppo di arditi viaggiatori…
Comunque sia il russo ol (ол), braga (брага), kvas (квас) e forse anche mol’ba (мольба) corrispondono più a meno al norreno öl, bjórr, hvas e mungàt, per i diversi tipi di birra mentre la parola più comune oggi pivo (пиво) indicava un’altra bevanda (sacra?) – mai l’acqua! – prima di passare (ma molto dopo) a significare birra! La divisione di classe esiste anche per la birra che è per l’élite variago-slava mentre l’acqua (l’abbiamo notato già per le razioni che il virnik portava con sé nel suo giro) o al massimo miele allungato sono per la gente inferiore.
D’altronde il convito della classe nobile era un evento speciale diverso dal pranzo sacro dopo il sacrificio in comune dei villaggi e, ovunque avesse luogo, era l’occasione buona per bere in grandi quantità bevande raffinate. Dal tempo della conquista di Kiev da parte di Vladimiro (ca. 980 d.c.), diventò tuttavia una tradizione allestire anche grandi conviti popolari per le strade della città affinchè il popolo godesse della magnificenza del principe (knjaz) con una grande offerta di bevande non eccellenti, ma con mangiare a sazietà. Era una specie di politica simile a quella distribuzione gratuita del panem et circenses dell’antica Roma per farsi voler bene continuata a Costantinopoli e certamente suggerita dalla nascente Chiesa Russa…
Nelle Cronache leggiamo che nel 1128 il Velikii Knjaz di Kiev, Vsevolod, mentre era ad un banchetto con i suoi uomini e con i bojari locali, comandò di apparecchiare le tavole anche per la gente “nera” del Podol nella città bassa e raccomandò di offrire da bere vino, mjod, perevar insieme agli altri cibi. Un’avvenimento eccezionale certamente, ma necessario per questo principe abbastanza inviso al popolo kieviano. Per cui conoscendo questo knjaz, questo banchetto per il popolaccio ci offre la possibilità di fare qualche considerazione un po’ maligna e di parte.
Il vino era sicuramente importato dalla Grecia o dalla Borgogna, viste le relazioni di Vsevolod fin col lontano Reno, ma sicuramente annacquato per la gente del popolo che non ne aveva mai bevuto, salvo averlo visto bere in chiesa nelle celebrazioni cristiane. Il mjod invece già lo conosciamo, ma quello offerto quella volta alla gente sarà stato il più diluito chiamato varjonyi e di qualità inferiore. Rimane da individuare il perevar. La parola significa ricotto o stracotto per cui doveva essere quello che oggi si chiama sbiten’ poco alcolico e che a Kiev era in vendita nel mercato nei giorni di lavoro quando si beveva caldo. Per I. G. Pryzhov il perevar era una miscela non molto fermentata di miele e composta di frutta (varenie)…
Sbiten’ di Suzdal non alcolico (Casa di Svarog, 2005) In un litro d’acqua diluire 150 g di miele. Aggiungere le spezie importate (chiodi di garofano, cannella, cardamomo, rabarbaro) che sono state pestate ben bene nel mortaio (di qui il nome, sbiten’!). Bollire la miscela per una decina di minuti togliendo la schiuma man mano che si forma. Lasciare a sé per una mezz’ora e filtrare. Riscaldare ancora e bere molto caldo.
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A proposito del miele dobbiamo dire che dal X al XIII sec. questo con varie ricette e mescolanze con altri liquidi fu la materia prima per tutte le bevande sacre e laiche della Rus’. Un uso veramente smodato e generale…
L’uso “laico” e “sacro” del mjod d’altronde è confermato dall’archeologia dove alcuni reperti di coppe trovate nelle tombe erano decisamente quelle descritte nei documenti contemporanei per ingurgitare questa bevanda particolare. Che cosa hanno di distintivo? In primo luogo sono fatte in modo da non rimanere in equilibrio se poggiate perché mancano sempre di piedino o di base. Prevalentemente sono i corni di uro (Bos primigenius) con l’orlo e la punta argentati oppure intere coppe d’argento tutte tonde. Infatti l’uso era (ed è!) di riempire le coppe e svuotarle d’un fiato e per questa ragione non dovevano posare stabilmente su una qualche superficie piatta. Presumiamo naturalmente che lo smierd non si potesse permettere tali coppe, ma per lo meno doveva averne, con le stesse caratteristiche, fatte di altri materiali!
Vi chiederete semmai perché non compare la vodka nel nostro discorso.
Qui la risposta è molto semplice. Secondo le ricerche più recenti (V. V. Pohlebnik), la vodka come distillato di vino fu importata nella terra Russa attorno al XV sec. In verità la tecnica sarebbe stata appresa dai russi nel 1386 o forse meglio nel 1429 dai mercanti genovesi di Caffa in Crimea che si presentarono a Mosca invitati in un’ambasciata commerciale. Non ci sono documenti però in cui viene detto espressamente che i genovesi insegnassero ai moscoviti a distillare o che portassero con loro i particolari alambicchi e perciò il problema rimane irrisolto. Invece il veneziano Contarini ricorda, mentre era in visita a Mosca, un vino artificiale (vinò tvorjònoe) distillato. Potrebbe essere la vodka, ma come si fa a dirlo con sicurezza? Secondo I. Kurukin e E. Nikulina, la prima notizia sicura sulla vodka appare nel Trattato delle due Sarmazie (qui intese per Russia e Polonia) del Rettore dell’Università Jagellonide di Cracovia stampato nel 1517. Qui si legge: “Dunque dall’avena essi (i Russi) fanno un liquido ardente o spirito di vino e lo bevono per proteggersi dai brividi del freddo.” Tipico, ma certamente riferito alla classe elitaria delle città (Mosca e le altre vicine)… Qui però chiudiamo con la vodka dicendo che con tale ultima datazione il nostro interesse trova immediatamente il suo limite cronologico e quindi per chi voglia saperne di più raccomandiamo il classico I.G. Pryzhov, Storia delle Osterie (kabak) della Russia, edito due secoli fa, mentre noi la consideriamo una bevanda “non medievale”.
Tornando al nostro discorso iniziale invece, ci siamo accorti che è difficile definire nel mondo contadino che cosa distingua una bevanda, eccetto sempre l’acqua, da un altro cibo più o meno liquido. Ci siamo convinti così che, se non se ne fissa l’uso per un’occasione particolare, qualsiasi liquido o semiliquido non può essere per definizione usato come bevanda. E se guardiamo nelle tradizioni nazionali o regionali troviamo quasi sempre le bevande come prodotti preparati e tenuti da parte per le occasioni speciali della vita: un matrimonio, una morte, un compleanno, un addio, un saluto di benvenuto, un grande incontro, un’offerta agli dèi… Dunque, e lo ripetiamo!, così doveva essere pure per lo smierd!
E allora da dove estrarre o raccogliere i liquidi da far bevande? Certamente ci vengono subito in mente le piante. Sono per eccellenza gli esseri viventi che raccolgono nel loro corpo più acqua possibile e che risentono della mancanza del prezioso liquido naturale più di ogni altro vivente. E, siccome il nostro smierd vive dalle e in mezzo alle piante, è anche logico che traesse le sue bevande giusto da queste. Tuttavia, per ottenerne fermentate e quindi per elevarle di valore economico e sacrale, occorre conoscere le proprietà di certi funghi saccaromiceti che riescono a scindere gli zuccheri in alcol e anidride carbonica e saperli pure selezionare. Noi oggi sappiamo che questi funghi sono microscopici e vagano nell’aria in continuazione sotto forma di spore e che queste, non appena cadono in liquidi zuccherini, iniziano a svilupparsi e cioè a fermentare. Ora, qualsiasi pianta è sorgente di zuccheri dato che questi sono composti basilari dei tessuti vegetali e dunque la fermentazione è un processo chimico comunissimo nella marcescenza di frutti e di semi. E qui si nota un tipico approccio della gente del nord verso i frutti e le bacche che tengono per migliori, non le bacche appena colte, ma quelle che sono lasciate a marcire per un po’ prima di consumarle! In questo modo, è vero!, diventano più dolci (ma anche più liquide!)…
Il processo fermentativo è molto sensibile alla temperatura e perciò lo si può addirittura provocare facendo cuocere dolcemente la frutta nell’acqua… L’unico problema poi rimane la conservazione di questa specie di marmellata liquida (varenie) affinché essa continui ad essere accettata dal palato. Su questo punto però è inutile discutere troppo poiché i gusti sono culturali e cambiano col tempo e, se oggi a noi sembrerebbe vomitevole una poltiglia fatta di bacche quasi marce, nel tempo passato quella stessa poltiglia veniva bevuta tranquillamente e con piacere.
Comunque altri liquidi vegetali possono essere direttamente “spillati” dalla pianta per farne bevande oppure estratti con vari processi (spremitura, decozione, infusione etc.): Il succo di certi grossi frutti, la linfa di certi alberi, gli olii dei semi, gli olii eterei di foglie e di fiori e di cortecce, etc…
E che dire dei liquidi animali? Le secrezioni animali liquide che l’uomo di solito appetisce sono il latte dei mammiferi o il sangue, oltre al miele. Tuttavia se il latte (di capra!) si beve non si potrà produrre formaggio o prodotti simili e, come tutti sanno, il formaggio si può conservare a lungo, al contrario del latte. Tuttavia quando si fanno dei prodotti caseari normalmente si separa il cosiddetto siero (syvorotka) e questo è assolutamente buono da bere e non si getta via. Sappiamo che i Vichinghi, e quindi anche i Variaghi, lo bevevano volentieri (syr in norreno), ma per la cultura slavo-russa invece non abbiamo conferme di tale uso e gli unici prodotti più tipici che lo smierd otteneva dalla lavorazione del latte non erano bevande, ma il tvorog, la smetana e il burro. Anzi! I primi due prodotti addirittura trattenevano ancora gran parte del siero del latte di partenza!
Per quanto riguarda il sangue dobbiamo assolutamente escluderlo poiché quale linfa della vita poteva essere soltanto offerto agli dèi e dalle Cronache sappiamo che soltanto i nomadi della steppa ucraina si dissetavano, a volte!, col sangue spillato dalle vene delle cavalle (oh sacrilegio!).
Un altro liquido animale è lo strutto, ma questo non può servire da bevanda per la sua alta viscosità!
Anche le secrezioni del rospo o della rana potrebbero essere bevute (e lo furono!), ma in questo caso l’uso che se ne faceva era specialmente magico (far perdere il senno!).
Addirittura sappiamo di un uso russo antico del veleno delle api contro i reumatismi o i dolori della gotta (malattia dell’élite che mangiava troppa carne!).
Per quanto riguarda invece le deiezioni liquide animali, il discorso è del tutto diverso perché il loro uso era esclusivamente per certe “applicazioni industriali” o “farmaceutiche” a cui accenneremo in altro luogo.
Resta alfine il miele che è il più importante prodotto “liquido” animale che lo smierd ricavava dalla foresta e sul quale si è costruita tutta una parte importante della cultura del nord Europa. Qui il discorso è molto più articolato. Il mjod è una bevanda di miele troppo tradizionale per tutto il folclore indoeuropeo tanto che la somiglianza fra le parole che lo indicano nelle diverse lingue non implica assolutamente un imprestito tecnologico o culturale.
Abbiamo detto che se ne preparavano vari tipi anche se, dobbiamo dirlo, il miele (purtroppo in russo sia miele che idromele è la stessa parola, mjod), prima di farne una bevanda fermentata, restava troppo prezioso come articolo di scambio per lasciarlo lavorare in grandi quantità invece che esportarlo.
E torniamo alla bevanda fermentata per eccellenza. Il mjod più a lungo fermenta (ossia invecchia) e più alcolico diventa e perciò un mjod di alta gradazione alcolica è molto vecchio e vale tantissimo. Ad esempio in una bylina si parla di un mjod che era stato a sé per lungo tempo (stavliennyi), quasi 15 anni, quando fu tirato fuori per destinarlo ad una celebrazione molto importante! Naturalmente se un prodotto rimaneva ad invecchiare, causava dei problemi economici, e quindi un tale mjod se lo potevano permettere solo i nobili o il Velikii Knjaz di Kiev come infatti ci conferma la stessa bylina.
Ma perché il mjod fermentato è più importante ritualmente? Il rilassamento delle inibizioni fisiche e mentali per ingestione di alcol etilico è rimasto un mistero fino a qualche decennio fa, per quanto riguarda la spiegazione “scientifica”, ma nel mondo ebraico e musulmano, dove il vino era comunemente usato, il fatto di perdere il controllo della propria “anima” causava grande preoccupazione, oltre che mistero, e perciò colui che diventava ebbro era considerato un debole e facile preda di Satana o di altri spiriti maligni. Nella mitologia slava invece l’ebbrezza era considerata in tutt’altro modo. La bevanda inebriante era il tramite per parlare con gli dèi e addirittura a parlare agli altri per loro conto. Il volhv non parlava con dio quando era ebbro (sia per aver bevuto il mjod, sia per aver masticato l’Amanita o la Canapa) e annunciava le decisioni divine predicendo il futuro? Dunque bere una bevanda inebriante dava dei poteri soprannaturali…
Forse però val la pena dare qualche informazione su che cosa significasse il miele per lo smierd e la sua attività di raccolta per il semplice motivo che per secoli questo prodotto diventò uno degli articoli cardine del traffico commerciale delle Terre Russe.
Il miele del nord Europa oggi è naturalmente passato di moda da quando lo zucchero di barbabietola sin dal tempo di Napoleone ha preso il suo posto come dolcificante, ma nel Medioevo e fino a tutto il XV sec. era ancora rinomato e richiestissimo. E questa sua fama risaliva a tempi remoti, se ricordiamo che lo stesso Erodoto decantava questo prodotto “scitico”. Nelle Cronache Russe si dice che il traffico del miele poteva mantenere florida l’economia di interi villaggi e che i principi delle diverse città-stato (udel), consolidatisi con la caduta di Kiev del 1240, si preoccupavano di riuscire a controllare tutta la raccolta di miele della rispettiva regione per non deludere le richieste dei compratori. Addirittura ci sono notizie sull’ordine da parte di un knjaz russo di trasferire un intero villaggio nella foresta affinché la raccolta del miele non sfuggisse al controllo! Lo storico polacco del XV sec. Jan Długosz che si interessò anche della storia dei rapporti fra il suo paese, ormai sotto la dinastia lituana dei Jagellonidi, si compiace quando racconta che Casimiro il Grande nel 1352 riprese ai Tatari invasori la Podolia (parte del territorio una volta kieviano) “…ricca di miele e di bestiame…”, sebbene sapesse che anche la Polonia non fosse assolutamente da meno per fornire gli stessi articoli.
Abbiamo visto come la raccolta del miele “selvaggio” avveniva dopo la scoperta e l’appropriazione delle arnie nel cavo dei tronchi e dunque aveva un buon mercato! E per questi motivi un prodotto di tal valore non poteva non coinvolgere anche quel poco di legislazione che san Vladimiro e suo figlio Jaroslav produssero sotto il nome di Pravda Russkaja. Qui sono previste severe pene pecuniarie per chi danneggia o svuota le arnie del Velikii Knjaz!! Minuziosamente questo codice entra nelle problematiche concernenti gli alberi che portano gli alveari, su chi sottrae le api per allevarle “di contrabbando” etc.
Giovanni il Borsello (Ivan Kalità), uno dei primi principi della nascente Mosca del XIV sec., accumulò moltissime ricchezze con il miele e quando fece testamento si preoccupò di dividere le diverse aree “mellifere” oculatamente fra i suoi figli per assicurare loro un cespite importante di entrate per il futuro!
Dalle Cronache sappiamo così che se ne distinguevano vari tipi indicati col nome della loro provenienza più che per il sapore dei fiori: il miele di Novgorod o di Pskov di gusto quasi simile (!), quello di Tver’, quello di Murom e di Rjazan’ e ancora quello di una cittadina chiamata Kadoma in questa ultima regione che aveva un sapore del tutto speciale.
Tuttavia avere e mantenere un monopolio di questo genere senza averne i mezzi adeguati di informazione e di politica commerciale ha molti punti deboli e probabilmente il mercato arabo la cui cultura molto raffinata nel X-XI sec. era grande consumatrice di dolci si adoperò affinché non dovesse esclusivamente dipendere dai prezzi che i principi russi imponevano e cercò altre fonti, ricorrendo alla canna da zucchero conosciuta in Oriente da secoli come un prodotto indiano altrettanto buono quanto il miele. I principi russi cominciarono così a prendere in considerazione maggiore i mercati europei dell’Occidente, attraverso genovesi e veneziani. Anche qui però si verificò lo stesso fenomeno di insofferenza al monopolio di principi cristiani “scismatici” come erano considerati i russi. Già durante le Crociate, quando l’Occidente venne a contatto con lo zucchero di canna, i Cavalieri di San Giovanni sperimentarono la coltivazione di questa pianta proprio a San Giovanni d’Acri in Palestina! Non ci fu gran seguito però dopo la caduta di questa base palestinese occidentale e si continuò a comprare miele russo…
La domanda crescente dei sec. XI-XIII d.C. tuttavia portò nella Terra Russa la produzione del miele ad un’innovazione e cioè all’allevamento delle api invece che la sola raccolta libera e spontanea negli alveari selvaticie ciò fece in parte perdere a quest’ultima operazione il suo aspetto sacro finora conservatosi nel mir.
Il miele nella Pianura Russa non era tanto un dolcificante quanto invece la principale materia prima per fare bevande alcoliche! Tutto al contrario che nel resto d’Europa! Il gusto del dolce è un gusto tutto culturale e non è sempre apprezzato in tutte le culture umane come tale. Si pensi soltanto all’apprezzamento del tè, del caffè, del cacao che sono tutti prodotti naturalmente amari. Se poi si aggiunge che il dolce del miele ha anche un sapore del tutto particolare (a causa della varietà dei fiori utilizzate dall’ape!) respinto da molte persone, si può benissimo immaginare che nella casa dello smierd il miele appariva molto raramente come dolcificante.
Per addolcire si usavano invece le bacche nel modo che abbiamo detto prima. Dalle bacche cotte dolcemente con acqua (e non solo dalle bacche), se queste erano ricche di pectina, si otteneva una gelatina molto densa chiamata kisèl. Questo è uno dei più antichi dolcificanti mai menzionati nei documenti scritti della Rus’ di Kiev.
Il kisèl salva la città di Belgorod(da Aldo C. Marturano, 2004)
…i Peceneghi colsero l’occasione per procedere verso la città ponendo per primi l’assedio a Belgorod, dopo aver superato le postazioni rus poco guarnite della corrente inferiore del Dnepr. Né da Kiev né da Novgorod poteva giungere alcun aiuto tempestivo e così la vece di Belgorod, quando l’assedio ormai durava da parecchio e il cibo cominciò a scarseggiare, vedendo i morti per fame lungo le proprie strade, si riunì per decidere che cosa fare. Chiaramente, senza difesa armata, stabilirono di arrendersi. Un vecchio però che non aveva partecipato alla vece, quando gli riferirono della decisione, chiamò di nuovo tutti a consiglio ed espose un’idea che gli era venuta in mente per far rinculare i Peceneghi. Tutti sapevano come quelle incolte genti della steppa erano fortemente attratte dal modo di vivere dei russi in città e quanto creduloni essi diventassero quando li si attirava nella vita cittadina. L’idea che il vecchio aveva elaborato era per l’appunto imperniata su questa loro debolezza. Disse dunque che bisognava preparare tini di gelatina dolce (kisèl), tini di idromele (mjod) e tini di altri sciroppi dolcissimi (boltusc’ka). Occorreva poi porre questi tini nei pozzi e invitare i Peceneghi in città ad assaporare l’acqua tirata su dai pozzi così preparati. Nel frattempo si spargesse la voce, facendola giungere anche alle orecchie dei non graditi assedianti, che l’acqua che sgorgava dal terreno e nutriva i loro pozzi non era la solita acqua semplice, ma dolce come i liquori più dolci. Questo avrebbe solleticato la curiosità dei Peceneghi e se avessero creduto a quanto si diceva, avrebbero sicuramente ragionato così: “A che pro continuare l’assedio per così lungo tempo per espugnare questa città? Perchè distruggere questo ben di Dio e queste fonti d’acqua dolcissima? E se hanno da bere cose così buone, figuriamoci che cosa hanno da mangiare!” Il vecchio era sicuro di questo e perciò era altrettanto sicuro che i nemici sarebbero venuti a più miti consigli, se si fossero invitati i loro capi a venire in città e a constatare personalmente che la meraviglia dell’acqua di Belgorod era un fatto vero. Tutti i cittadini però dovevano concorrere affinché la scena risultasse la più realistica possibile. Fu mandata una delegazione con degli ostaggi, da trattenere presso i nomadi per garanzia finchè la delegazione pecenega non avesse completato la visita in città. Naturalmente i Peceneghi videro con i propri occhi come dai pozzi di Belgorod si attingeva liquore e non acqua semplice, rimanendone grandemente impressionati. Notando l’effetto ottenuto i belgorodesi cercarono allora di dissuaderli dal mantenere l’assedio dicendo: Abbiamo da mangiare in abbondanza dalla terra, anzi mangiamo roba buona e dolce! Quando il rapporto della visita fu riportato al capo pecenego, questi decise che era meglio soprassedere e ritirò l’assedio, accettando in cambio dei doni dalla città e promettendo buone relazioni per il futuro.
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Il miele era anche usato come unguento per curare la pelle, ferite etc. o per farne pozioni medicamentose e, persino per conservare la carne “sotto miele”! Quando l’interesse della nobiltà della città si concentrò su questa materia prima ecco che quasi si impedì allo smierd di continuare ad usarla, affibbiando multe e tasse non soltanto sul suo consumo, ma anche sulla sua produzione!
Le bevande al miele e cioè i vari tipi di mjod però conservarono la loro popolarità e l’élite al potere fu costretta spessissimo a metterne a disposizione degli abitanti delle città che non avevano la possibilità di rifornirsi direttamente come gli smierdy. Un metodo che abbiamo già visto sopra e che però è occasionale…. E allora dove poter trovare da bere in città nelle celebrazioni più private?
Nelle città della Polonia c’erano già nel X sec. d.C. dei locali dove si mesceva mjod a pagamento. Ma soltanto nel 1150 a Smolensk appaiono le cosiddette korc’my (parola turca per osteria, taverna) ossia delle mescite pubbliche dove, pagando, si poteva appunto bere del mjod. Qualche anno dopo le troviamo menzionate anche a Novgorod e a Pskov e sono ora di proprietà della città mentre a Kiev, dove sono presenti più o meno alla stessa epoca, appartengono al Velikii Knjaz!
Ecco che l’abitudine di frequentare il bar (la korc’mà) è già in auge nei gorod russi del Medioevo…
Vediamo allora in quali cerimonie la bevuta era obbligatoria di cui abbiamo notizie scritte.
La strava ad esempio è un vecchissimo tipo di banchetto funebre slavo (del panorama indoeuropeo) per la morte di un capo e di essa abbiamo la descrizione classica per la morte di Attila in Jordanes alla quale rimandiamo.
Lo stesso doveva essere per la triznà come ne parlano le Cronache Russe quando Olga, alla ricerca del cadavere di suo marito nella Terra dei Drevljani, la indica per onorare la morte di Igor in cui i Drevljani di Iskorosten’ (questa era la loro capitale a pochi chilometri da Kiev), suoi uccisori, sono obbligati a fornire tutto il mjod necessario alla celebrazione. Questa triznà finisce in un’ubriacatura generale, tanto che Olga riesce a far trucidare i Drevljani ancora ebbri e compie la sua vendetta contro ogni regola di lealtà. Probabilmente, se accettiamo l’etimologia suggerita da D. Ilovaiskii (1876), triznà significa “divisione in tre parti” poiché, secondo il racconto di Ibn Fadhlan, quando moriva un capo dei Rus’, le sue sostanze erano divise in tre: una parte andava alla sua famiglia, con un’altra si compravano i vestiti e gli arredi della cerimonia funebre e infine, la terza, veniva tutta spesa per il convito corrispondente alla triznà!
Pir invece è una parola molto più generale per banchetto, convito. Sicuramente il pir ricalcava modelli molto anteriori e il codice che lo regolava doveva essere più o meno lo stesso a parte le celebrazioni per le quali veniva allestito. In altre parole ogni qual volta si richiedeva un pir c’erano dei menu obbligatori fissati dalla tradizione e le bevande adatte da mescere. Vediamo allora di scoprirne qualche aspetto curioso. Molte descrizioni di banchetti presso la corte moscovita ci vengono riferite da ospiti stranieri fra il XV e il XVII sec. e, presumendo che i cambiamenti siano stati minimi col passare dei secoli, ci rifaremo in parte ad esse come se fossero ancora i piry medievali tanto per mettere in evidenza qualche loro stranezza per noi che viviamo nel XXI sec.
Ci scusiamo con il lettore per questa digressione che in realtà ha poco a che vedere con la nostra ricerca, ma lo scopo è di raffrontare la vita nel gorod distante mille anni luce da quella del villaggio al fine di dimostrare che il gorod appariva agli occhi dello smierd come un altro mondo, grande pauroso e potentissimo, ma a lui… assolutamente estraneo!
Ribadiamo che i riti dedicati alla sacralizzazione continua e costante dell’élite al potere erano importantissimi ed essenzialmente ricercati erano quelli che implicavano il cibo, l’uso delle risorse per ottenerlo e il ruolo religioso del capo nel distribuirlo (a se stesso e agli altri). E il teatro per questo spettacolo della sacralizzazione è proprio il gorod, nel nostro caso, Kiev! Prima di tutto un pir si teneva o nelle piazze o a corte nel terem del principe ossia nel palazzo più alto del gorod. Abbiamo visto come san Vladimiro in occasione della conquista di Kiev se ne fosse fatto costruire uno nella città alta. Ne daremo perciò una breve descrizione in modo da saperci muovere con la fantasia fra i vari ambienti mentre si svolge un incontro ufficiale con ospiti di riguardo.
Il terem del knjaz si distinse sempre da tutte le altre costruzioni civili di Kiev (e delle altre città russe, a parte Novgorod la Grande) per la sua magnificenza. Il terem visibile da lontano per chiunque si avvicinasse alla città era costruito sul cosiddetto Monte di Vladimiro (Vladimirskaja Gorà). In questa area non era permesso a nessun’altro avere case di abitazione senza autorizzazione. Solo intorno al XI sec. fu concesso ad alcuni bojari di avere le proprie case non lontane dal terem, ma per la semplice ragione che il knjaz in questione, Jaroslav (erede e figlio di san Vladimiro) in questo modo poteva avere costantemente sott’occhio questi personaggi della nobiltà “campagnola”!
Il terem aveva un primo piano (podklet) a livello del suolo molto alto e fatto di solito con pareti di ciottoli di fiume cementati insieme (o di mattoni, che vennero in uso più comune con i bizantini nel XII sec.). Sul podklet poggiava la travatura che faceva da pavimento al secondo piano. A partire da questo la costruzione continuava ora tutta in legno, secondo il vecchio pregiudizio che vivere in ambiente di legno (la foresta!) era più sano che non circondati dalla terra (l’argilla cotta ossia il luogo sotterraneo dove giacciono i morti!). Sul secondo piano poi si trovava la cosiddetta gridniza e la povaluscia, due sale di pari dimensioni nelle quali si viveva di giorno (nella prima) e si dormiva (nella seconda). Nella gridniza di solito si tenevano le riunioni fra gli uomini del knjaz e talvolta anche qualche banchetto più intimo, ma i grandi banchetti si allestivano nel piano di sotto. Qui lo spazio era più ampio e soprattutto, dato che questi eventi erano serali e notturni, a causa dell’illuminazione con fiamme nude si limitava al massimo il pericolo di incidenti che avrebbero potuto causare un incendio devastante. Nel podklet infatti erano sistemate le cucine (strjapusci)…
A parte nel piano superiore c’erano le cosiddette svetlizy o camere delle donne in cui l’illuminazione era data dalle finestre e non c’erano pec’ki per riscaldamento!!
Nella povaluscia si dormiva per terra su stuoie di feltro coperte da pellicce e ci si copriva con altre pellicce e il knjaz, temendo per la propria vita, dormiva insieme ai suoi uomini più fidati e sempre all’erta. Soltanto quando desiderava incontrare sua moglie, andava a visitarla nella di lei svetliza.
Il timore costante dell’attentato poneva il knjaz in modo molto critico anche di fronte al cibo e a chi lo preparava per cui il cuoco o la cuoca dovevano essere fidatissimi e attentissimi poiché in qualsiasi caso dubbio in cui il knjaz si fosse sentito male, i primi a temere per la propria vita erano proprio loro! E’ probabile che proprio a causa di ciò, la carne arrostita fosse preferita senza salse e intingoli in principio sospetti!
Dalla sommaria descrizione data sopra non dobbiamo immaginarci il terem come una costruzione semplice e solitaria e isolata, ma come parte di un’usad’ba (che abbiamo preferito tradurre con cascina) dove c’erano campi e orti in cui si coltivava di tutto, salvo naturalmente molte derrate che venivano dalla campagna o addirittura dall’estero! Nel terem di Kiev probabilmente si piantarono anche i primi alberi da frutto dopo che questi erano stati “provati” nel vicino Convento delle Grotte dove infatti è registrata la piantumazione del primo melo intorno al XIII sec. d.C.! Dalle Cronache Russe sappiamo che il podklet era sempre ricolmo di derrate alimentari in quantità veramente enormi ed eccessive, stando alle descrizioni fatte in occasione di rivolte e conseguente saccheggio da parte del cosiddetto popolaccio (cjorn’). Queste rivolte successe abbastanza di frequente a Kiev (e in altre città) e talvolta taciute dalle Cronache Russe ci dicono come il rapporto fra il potere e il popolo fosse molto instabile… ma questa è un’altra faccenda!
Dunque una volta fissata la data, veniva nominato un capo del pir che doveva presiedere all’ordinamento dei posti a seconda dell’importanza degli ospiti e dei commensali soliti e, al momento del banchetto, aveva pieni poteri su chiunque (in teoria persino sul Velikii Knjaz) per qualsiasi questione, in special modo nel caso che sorgessero litigi a causa della bevuta oppure per i caratteri permalosi dei convitati. Costui fissava in accordo col cuoco il menu e l’ordine di portata, controllava la salubrità dei cibi e si preoccupava di essere sempre presso il Velikii Knjaz in modo da accontentarlo in qualsiasi sua richiesta, per quanto possibile. A quanto sembra la maggior parte delle stoviglie erano di legno (naturalmente coperte di foglia d’oro!), ma c’era anche argento ben lavorato a profusione come grandi bacili per pulirsi le mani o grandi coppe dove pescare da bere etc. Invece non erano ammessi coltelli in vista né esistevano forchette in uso. I cibi non erano serviti in piatti personali e i convitati si servivano direttamente con le mani dalle portate messe davanti a loro.
In un pranzo presso Basilio II a Mosca (siamo nel XVI sec.) il Barone di Herberstein vide servire un cigno arrosto dal quale Basilio staccò con le mani alcune parti per sè.
Il Knjaz sedeva più in alto degli altri invitati e intorno a lui nessuno era ammesso, salvo l’andirivieni del capo convito. Di solito tutti i piatti preparati erano posti dinanzi al Knjaz tutti quanti insieme e questi ne mangiava per primo e quanto restava veniva passato al resto dei commensali seguendo un certo ordine di importanza. A volte per onorare uno di loro il Knjaz poteva anche raccomandare al capo convito di servire questo ospite prima di altri…
La cerimonia più interessante erano però gli innumerevoli brindisi. Si diceva che un banchetto non era riuscito, se non si fossero consumate numerose (decine) botti di mjod… Ogni commensale aveva il dovere di brindare salutando e augurando fortuna e salute al Knjaz e poi con qualche parola di circostanza anche inneggiare all’avvenimento per il quale il pir era stato allestito. Si beveva in corni di uro con orlo e punta argentati. Non vuotare un corno pieno significava non partecipare pienamente al pir e quindi offendere il proprio anfitrione e se restava del fondo significava che chi aveva appena bevuto era un bugiardo e l’augurio da lui partecipato non era tutto sincero. A questo badava l’attenzione del capo convito e del ganimede (ciasc’nik) che poteva poi riportarlo in un orecchio al Knjaz, causando un putiferio! I giri di brindisi erano numerosi perché era un obbligo finire il pir… in grandissima allegria, ma soprattutto ubriachi! E, attenzione!, l’ebbrezza, come abbiamo detto, non era un comportamento negativo. Al pir tutti avevano il diritto di dire male o bene, prendere in giro o elogiare presenti e assenti, deboli e potenti dopo la prima bevuta senza tema di rappresaglie! Naturalmente c’era chi non accettava le parole dette al suo indirizzo e si inalberava causando un parapiglia che era subito represso dal capo convito che interveniva con uomini armati e lasciava che l’eventuale lite si sciogliesse in un nuovo brindisi oppure in un combattimento privato, ma fuori dal pir. Un costume sopravvissuto fino ad oggi, ma che faceva parte anche della gost’bà del Knjaz, era quello di riempire gli ospiti di quanto era rimasto da mangiare quando abbandonavano il banchetto e nessun poteva rifiutare o fingersi ammalato per respingere una tale offerta! Ogni ospite lasciando la tavola doveva ringraziare ad alta voce, non il Knjaz, per carità!, ma Dio che aveva concesso questa possibilità e tanta ricchezza da poter nutrire il convitato con soddisfazione! Addirittura, quasi sempre nei conviti era presente un prelato…
In certi banchetti c’erano naturalmente canti e danze al centro della sala con i cantautori mantenuti dal knjaz stesso. I testi cantati logicamente erano l’esaltazione della figura del knjaz presente e delle sue imprese oppure di quelle dei suoi antenati.
Quanti erano gli ospiti? Abbiamo dei numeri enormi che vanno oltre le migliaia, ma non ci meraviglia. Infatti a seconda della festività è naturale che il knjaz (o il signore locale) invitasse quanta più gente possibile, anche soltanto per propaganda politica pura. Pure in questo, niente è cambiato fino ad oggi! D’altronde il knjaz aveva presso di sé in ogni pir la sua compagnia d’armi fidatissima chiamata in russo druzhina (resti dell’antico equipaggio variago!) e già costoro, come ospiti fissi, erano più centinaia!
Se questo era il pir presso il terem, più o meno dello stesso tenore erano quelli tenuti dai bojari e quelli collettivi nei villaggi per le feste comandate.
La Chiesa Russa naturalmente intervenne per evitare orgie e ubriachezza che considerava eventi pagani da aborrire. L’ubriachezza era però ancor più temuta per le ragioni sopra dette e poi perché dava una brutta immagine dell’autorità specialmente se l’ubriaco era un prelato o un pop!
Per primo è lo stesso san Teodosio delle Grotte (XI sec.) che si esprime così sull’ebbrezza: “Una cosa è l’ubriachezza maligna e un’altra è il bere misurato e secondo le leggi (!) e in tempi giusti e alla gloria di Dio!”, mentre la Pravda Russkaja contemporanea prescrive delle multe e le addebita tutte al vescovo se l’ubriaco è un suo prelato o sottoposto!
Nel XII sec. ancora il Velikii Knjaz di Kiev Vladimiro Monomaco nel suo Insegnamento (poucenie) in modo chiaro condanna l’ebbrezza quando esorta i suoi discendenti a non cadere mai in tale stato.
In verità tutte queste prescrizioni, condanne e pene che appaiono negli scritti ufficiali sono soltanto degli intenti dei legislatori o di coloro che se ne preoccupano perché poi della vita del villaggio e di come qui si risolvessero i problemi, l’élite kieviana (sia laica che religiosa) si interessò pochissimo e con insufficienza.
Il pop del villaggio nei suoi sforzi di integrarsi alla popolazione delle cui anime doveva occuparsi si trovò davanti tantissime difficoltà, persino a trovar moglie fra le ragazze del posto! Figuriamoci poi per il problema di vietare il bere “smodato”! Invece possiamo immaginare come il pop che aveva a disposizione il pregiatissimo vino da messa indulgesse a gustarselo insieme ai pochi amici del villaggio (al di là dell’additare i piry ufficiali come riti pagani) al posto del plebeo e pagano mjod…come ci raccontano le byline! Nel villaggio si continuò a frequentare il pir come l’occasione dove stare insieme in serenità e allegria edonistica, ma prima di tutto per solennizzare la propria appartenenza etnico-culturale con tutte le abitudini e i costumi tradizionali di cui si restò gelosamente custodi.
Si conservò anzi un sano costume da parte delle donne che di solito bevevano meno dei loro congiunti maschi: Fare un’ispezione alla fine di un pir all’aperto per vedere se tutti gli uomini fossero in piedi e non corressero il rischio di morire rimanendo stravaccati per terra all’addiaccio. Era credenza che una morte di questo genere destinava il defunto ad una vita senza pace nell’aldilà giacché era un morto impuro e nessuno lo avrebbe mai sepolto. Perciò occorreva rimettere in piedi l’ubriaco per portarselo vivo a casa! Per far ciò c’erano degli scongiuri da pronunciare ad alta voce oppure lasciarlo dormire ben infagottato sotto l’occhio vigile della donna. Questa rimaneva allora attenta, ma non doveva assolutamente dormire! In questo specifico caso per riuscire a vegliare occorreva tenere nelle mani della cera bianchissima e si pronunciavano degli scongiuri ad alta voce.
Scongiuro per smaltire la sbornia Alcol e vino abbandonate questo corpo e andatevene nella foresta dove gli uomini giusti non vanno, dove i cavalli non pascolano e gli uccelli non volano … Fatelo ritornare in sé quest’uomo, vostro schiavo (cioè degli dèi)… Scongiuro per tenersi sveglia Alba-albuccia bella bimba, tu stessa madre e regina e tu o luna e voi o stelle portatemi l’insonnia e tu… stenditi vicino a me e manda via dal mio corpo questo cattivo spirito (prendendo su di sé la personalità dell’ubriaco che dorme)… _____ N.B. Tutti questi scongiuri sono stati naturalmente registrati dopo l’introduzione del Cristianesimo e quindi sono accompagnati da ripetuti segni di croce e da ripetute invocazioni al Dio cristiano, alla Trinità, agli Angeli etc. (ACM)
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Selezione di foto scelte da internet sul tema "Bere in Russia, 2006" a cura di M. Brignone