Una malcelata inquietudine si coglie negli articoli scritti recentemente sulla Russia da importanti politologi e da esperti internazionali. Questa inquietudine ha lontane origini e si manifesta più insistentemente allorquando la Russia, nel rimettersi in movimento, sceglie la strada che le è più propizia, nella quale si rinnova la singolarità di questo paese collocato al vertice di molteplici frontiere che fissano contrasti e differenze.
Cosa si cela dietro questo atteggiamento che, a volte, pur non essendo mai univoco e finalizzato, appare solo accademico e di maniera? E per capire la Russia può ancora contribuire il vecchio dibattito sulla prevalenza o meno della natura asiatica su quella occidentale della Russia nell’era della globalizzazione? Oppure si deve ancora parlare della cosiddetta vocazione russa al dispotismo come sembrano suggerire importanti uomini politici europei recentemente firmatari di un nuovo appello?
Sulla stampa internazionale si trovano numerosi esempi di analisi che individuano nella politica russa un fattore anti-democratico, destabilizzante per l’Europa, in particolare in questa congiuntura, per un presunto scorretto utilizzo delle risorse energetiche. Alla Russia si rimprovera soprattutto di non essere una democrazia occidentale ma di essere ancora un paese insidioso guidato da una elite politica misteriosa e intenta a tessere trame segrete. In poche parole alla Russia si contesta di essere la Russia, una formazione statale che l’occidente non capisce ancora a fondo e che non vorrebbe avere come partner.
Vista la prevalenza di queste analisi che sono diventate vere proprie linee guida con le quali si fa informazione sulla Russia, mi è sembrato interessante promuovere una riflessione oltre questi luoghi comuni che, come è ben noto, sono i cimiteri del pensiero. L’ansia dell’occidente verso il rinnovato protagonismo russo nasce, nuda e cruda, dalla constatazione che la fine della guerra fredda non ha completato il lavoro di distruzione e smembramento dell’Unione Sovietica* che, in questa fase storica, secondo l’opinione di molti leader occidentali, coincide in gran parte con le aspirazioni neo-totalitarie di Putin.
Una Russia che torna ad essere protagonista, non solamente nello spazio ex-sovietico, rappresenta un problema ben più complesso e insidioso di quello incarnato durante la guerra fredda. Ma la posta in gioco è sempre la stessa: l’occidente non vuole rinunciare al suo stile di vita mentre avanzano nuovi soggetti economici e sociali dalle regioni più povere del mondo che chiedono di accedere agli stessi consumi e opportunità.
Non più lo scontro tra due differenti sistemi economici e sociali, come avvenne durante la guerra fredda, ma fra potenze economiche che si contendono il controllo dei mercati e delle ultime scarse risorse strategiche dell’economia del petrolio. L’occidente non vuole rinunciare ad essere il centro gravitazionale dell’economia mondiale, della ricerca, delle relazioni internazionali, dei consumi e della ricchezza concentrata nelle metropoli atlantiche dove è nato il capitalismo e la divisione internazionale del lavoro e della produzione.
Un quarto dell’energia mondiale finisce in America, il 20% della ricchezza prodotta si consuma negli Usa, l’industria dell’esperienza (turismo e intrattenimento) porta i marchi delle più note multinazionali, l’88% del traffico su internet (tutta l’economia della rete) passa sul web dei paesi atlantici la cui popolazione è solo il 15% della popolazione mondiale, la commercializzazione della cultura e dell’informazione si trova nelle mani di pochi e ben conosciuti network.
Lo stile di vita occidentale, i livelli di ricchezza e di accesso ai consumi appena descritti, fino a pochi anni fa, soprattutto con la fine dell’Unione Sovietica, sembravano inattaccabili e riproducibili nei tempi storici in piena sicurezza, ma con l’ingresso fulminante di Cina e India sulla scena internazionale dei consumi e dell’accesso alle materie prime, tutti gli scenari stanno cambiando. Sono esattamente queste realtà, un tempo considerate ai bordi della globalizzazione e non ritenute capaci di sviluppo autonomo, che hanno rimesso il gioco il ruolo della Russia.
A questo punto si può pensare, con un buon margine di credibilità, che la Russia di Putin, anche di fronte la dichiarata volontà occidentale di procedere all’allargamento della Nato alla Georgia e, possibilmente anche all’Ucraina (ma sembra più difficile dopo il fallimento della cosiddetta rivoluzione arancione ), non stia semplicemente contendendo all’occidente il controllo sullo spazio dell’ex-Unione Sovietica, ma che si sta inserendo, con il peso delle sue immense risorse e delle sue ancora avanzate capacità tecnologiche in campo militare e spaziale, nel solco dei paesi emergenti i quali contendono all’occidente il controllo delle risorse e dei mercati.
Per Mosca la riconquista di nuovi margini d’influenza nelle repubbliche asiatiche è importante per il suo spazio vitale di nazione multietnica che si estende storicamente e culturalmente su una dimensione geografica di carattere imperiale, tuttavia, pur con tutte le implicazioni facilmente individuabili, questo ritorno alla politica attiva in Asia Centrale rappresenta uno degli aspetti della politica interna del Cremlino, mentre il suo nuovo protagonismo internazionale si colloca al fianco di Cina e India. Putin lo ha dichiarato ufficialmente durante l’ultimo G8 tenutosi a S. Pietroburgo chiedendo l’ingresso di Cina e India e del Brasile al tavolo dei grandi.
Le linee di confronto fra l’Occidente, principalmente gli Usa, e la Russia sembrano perdere il carattere regionale, pur sempre importante e non privo di risvolti pericolosi, per assumere uno spessore internazionale inaspettato se si pensa agli sforzi compiuti per ridimensionare la Russia soprattutto nell’era di El’tsin. Forse l’inquietudine che abbiamo avvertito leggendo gli articoli della stampa specializzata si può riassumere in un altro modo e chiamarla nostalgia? Nostalgia per un paese che aveva smesso di camminare e che aveva permesso a pochi e oscuri oligarchici di concentrare nelle loro mano le enormi ricchezze della Russia?
Agosto 2006
Cosa si cela dietro questo atteggiamento che, a volte, pur non essendo mai univoco e finalizzato, appare solo accademico e di maniera? E per capire la Russia può ancora contribuire il vecchio dibattito sulla prevalenza o meno della natura asiatica su quella occidentale della Russia nell’era della globalizzazione? Oppure si deve ancora parlare della cosiddetta vocazione russa al dispotismo come sembrano suggerire importanti uomini politici europei recentemente firmatari di un nuovo appello?
Sulla stampa internazionale si trovano numerosi esempi di analisi che individuano nella politica russa un fattore anti-democratico, destabilizzante per l’Europa, in particolare in questa congiuntura, per un presunto scorretto utilizzo delle risorse energetiche. Alla Russia si rimprovera soprattutto di non essere una democrazia occidentale ma di essere ancora un paese insidioso guidato da una elite politica misteriosa e intenta a tessere trame segrete. In poche parole alla Russia si contesta di essere la Russia, una formazione statale che l’occidente non capisce ancora a fondo e che non vorrebbe avere come partner.
Vista la prevalenza di queste analisi che sono diventate vere proprie linee guida con le quali si fa informazione sulla Russia, mi è sembrato interessante promuovere una riflessione oltre questi luoghi comuni che, come è ben noto, sono i cimiteri del pensiero. L’ansia dell’occidente verso il rinnovato protagonismo russo nasce, nuda e cruda, dalla constatazione che la fine della guerra fredda non ha completato il lavoro di distruzione e smembramento dell’Unione Sovietica* che, in questa fase storica, secondo l’opinione di molti leader occidentali, coincide in gran parte con le aspirazioni neo-totalitarie di Putin.
Una Russia che torna ad essere protagonista, non solamente nello spazio ex-sovietico, rappresenta un problema ben più complesso e insidioso di quello incarnato durante la guerra fredda. Ma la posta in gioco è sempre la stessa: l’occidente non vuole rinunciare al suo stile di vita mentre avanzano nuovi soggetti economici e sociali dalle regioni più povere del mondo che chiedono di accedere agli stessi consumi e opportunità.
Non più lo scontro tra due differenti sistemi economici e sociali, come avvenne durante la guerra fredda, ma fra potenze economiche che si contendono il controllo dei mercati e delle ultime scarse risorse strategiche dell’economia del petrolio. L’occidente non vuole rinunciare ad essere il centro gravitazionale dell’economia mondiale, della ricerca, delle relazioni internazionali, dei consumi e della ricchezza concentrata nelle metropoli atlantiche dove è nato il capitalismo e la divisione internazionale del lavoro e della produzione.
Un quarto dell’energia mondiale finisce in America, il 20% della ricchezza prodotta si consuma negli Usa, l’industria dell’esperienza (turismo e intrattenimento) porta i marchi delle più note multinazionali, l’88% del traffico su internet (tutta l’economia della rete) passa sul web dei paesi atlantici la cui popolazione è solo il 15% della popolazione mondiale, la commercializzazione della cultura e dell’informazione si trova nelle mani di pochi e ben conosciuti network.
Lo stile di vita occidentale, i livelli di ricchezza e di accesso ai consumi appena descritti, fino a pochi anni fa, soprattutto con la fine dell’Unione Sovietica, sembravano inattaccabili e riproducibili nei tempi storici in piena sicurezza, ma con l’ingresso fulminante di Cina e India sulla scena internazionale dei consumi e dell’accesso alle materie prime, tutti gli scenari stanno cambiando. Sono esattamente queste realtà, un tempo considerate ai bordi della globalizzazione e non ritenute capaci di sviluppo autonomo, che hanno rimesso il gioco il ruolo della Russia.
A questo punto si può pensare, con un buon margine di credibilità, che la Russia di Putin, anche di fronte la dichiarata volontà occidentale di procedere all’allargamento della Nato alla Georgia e, possibilmente anche all’Ucraina (ma sembra più difficile dopo il fallimento della cosiddetta rivoluzione arancione ), non stia semplicemente contendendo all’occidente il controllo sullo spazio dell’ex-Unione Sovietica, ma che si sta inserendo, con il peso delle sue immense risorse e delle sue ancora avanzate capacità tecnologiche in campo militare e spaziale, nel solco dei paesi emergenti i quali contendono all’occidente il controllo delle risorse e dei mercati.
Per Mosca la riconquista di nuovi margini d’influenza nelle repubbliche asiatiche è importante per il suo spazio vitale di nazione multietnica che si estende storicamente e culturalmente su una dimensione geografica di carattere imperiale, tuttavia, pur con tutte le implicazioni facilmente individuabili, questo ritorno alla politica attiva in Asia Centrale rappresenta uno degli aspetti della politica interna del Cremlino, mentre il suo nuovo protagonismo internazionale si colloca al fianco di Cina e India. Putin lo ha dichiarato ufficialmente durante l’ultimo G8 tenutosi a S. Pietroburgo chiedendo l’ingresso di Cina e India e del Brasile al tavolo dei grandi.
Le linee di confronto fra l’Occidente, principalmente gli Usa, e la Russia sembrano perdere il carattere regionale, pur sempre importante e non privo di risvolti pericolosi, per assumere uno spessore internazionale inaspettato se si pensa agli sforzi compiuti per ridimensionare la Russia soprattutto nell’era di El’tsin. Forse l’inquietudine che abbiamo avvertito leggendo gli articoli della stampa specializzata si può riassumere in un altro modo e chiamarla nostalgia? Nostalgia per un paese che aveva smesso di camminare e che aveva permesso a pochi e oscuri oligarchici di concentrare nelle loro mano le enormi ricchezze della Russia?
Agosto 2006
Luigi Novelli
*APPENDICE (a): il piano Brzezinski
Il Piano per regolare i conti con la Russia era noto da tempo e si articolava in due fasi così come le aveva ideate il suo autore: Zbigniew Brzezinski. La prima fase, come oggi è ammesso pubblicamente, fu la trappola dell’Afghanistan e degli euromissili che indussero al collasso lo Stato sovietico già provato da un lungo periodo di stagnazione, la seconda fase doveva portare allo smembramento dell’ex-impero sovietico in tre aree:
- la Russia Occidentale, da ridurre allo stato di satellite povero dell’orbita europea per diventare riserva strategica di materie prime a buon mercato;
- la Siberia, per sfruttarne al massimo le sue risorse energetiche e minerali;
- l’Asia Centrale, per farne una enorme piazza d’armi di fronte alla Cina.
Dopo l’undici settembre questo piano che avrebbe dovuto trovare nell’amministrazione Bush la punta di diamante, con grande meraviglia di tutti gli osservatori, ha subito una correzione che molti commentatori hanno interpretato come un accordo fra Putin e Bush per avere entrambi le mano libere nella lotta al terrorismo, rispettivamente in Cecenia l’uno e in Medio Oriente l’altro.
Questa fase nuova e imprevista, malamente interpretata dall’amministrazione Bush che ha portato gli Usa ad impantanarsi pericolosamente in Iraq, combinandosi con la crisi mondiale dell’energia che decreta la scomparsa del petrolio a basso costo, con cui l’occidente ha supportato tutto il suo sviluppo economico, ha permesso alla Russia di riprendere fiato e di giocare un’altra partita.
APPENDICE (b): Putin e Brzezinski
Il Presidente russo, il 25 aprile 2005 davanti alla Duma fece una dichiarazione sorprendente sulle conseguenze della guerra fredda e che forse sono emblematiche di un corso nuovo: «Il crollo dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe del secolo. Per il popolo russo questo è stato un dramma». Queste affermazioni giungevano al culmine delle celebrazioni russe sulla vittoria contro il nazismo ma non si spiegano solamente con l’orgoglio, legittimo, di rievocare una storia gloriosa nella quale la Russia ebbe un ruolo centrale, si spiegano meglio, forse, se confrontate con la dichiarazione di Zbigniew Brzezinski riportate in russo su portale InoSmi il 28 giugno 2005: «Da un punto di vista storico cos’è più importante? I Talebani o la caduta dell’impero sovietico? Alcuni rimescolati islamisti o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?»
Queste due affermazioni sono inconciliabili, tuttavia appartengono di diritto ad uno schema politico della storia e delle relazioni internazionali ancora tutto dentro il disegno di Jalta, ma con una differenza non trascurabile per le sorti delle nazioni. Per il popolo russo la fine dell’Unione Sovietica è stata un tragedia di proporzioni epocali che si è sviluppata sulla base di una differente ridistribuzione della ricchezza fino a quel momento sconosciuta, e di nuovi confini geografici che hanno rimescolato storie personali e sociali lesionando definitivamente una sufficiente integrazione culturale ed etnica tra le diverse repubbliche e, tuttavia, le conseguenze immani del crollo sovietico sono state sopportate solo dai popoli di quella grande nazione multietnica. Al contrario gli effetti dell’integralismo islamico, che è stato armato e sostenuto proprio per arginare l’ingerenza sovietica in Asia centrale, dall’11 settembre in poi non si può più considerare un male minore per la stabilità e la pace mondiale e le conseguenze sono gli attacchi terroristici nelle maggiori capitali occidentali e del mondo .
Il Piano per regolare i conti con la Russia era noto da tempo e si articolava in due fasi così come le aveva ideate il suo autore: Zbigniew Brzezinski. La prima fase, come oggi è ammesso pubblicamente, fu la trappola dell’Afghanistan e degli euromissili che indussero al collasso lo Stato sovietico già provato da un lungo periodo di stagnazione, la seconda fase doveva portare allo smembramento dell’ex-impero sovietico in tre aree:
- la Russia Occidentale, da ridurre allo stato di satellite povero dell’orbita europea per diventare riserva strategica di materie prime a buon mercato;
- la Siberia, per sfruttarne al massimo le sue risorse energetiche e minerali;
- l’Asia Centrale, per farne una enorme piazza d’armi di fronte alla Cina.
Dopo l’undici settembre questo piano che avrebbe dovuto trovare nell’amministrazione Bush la punta di diamante, con grande meraviglia di tutti gli osservatori, ha subito una correzione che molti commentatori hanno interpretato come un accordo fra Putin e Bush per avere entrambi le mano libere nella lotta al terrorismo, rispettivamente in Cecenia l’uno e in Medio Oriente l’altro.
Questa fase nuova e imprevista, malamente interpretata dall’amministrazione Bush che ha portato gli Usa ad impantanarsi pericolosamente in Iraq, combinandosi con la crisi mondiale dell’energia che decreta la scomparsa del petrolio a basso costo, con cui l’occidente ha supportato tutto il suo sviluppo economico, ha permesso alla Russia di riprendere fiato e di giocare un’altra partita.
APPENDICE (b): Putin e Brzezinski
Il Presidente russo, il 25 aprile 2005 davanti alla Duma fece una dichiarazione sorprendente sulle conseguenze della guerra fredda e che forse sono emblematiche di un corso nuovo: «Il crollo dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe del secolo. Per il popolo russo questo è stato un dramma». Queste affermazioni giungevano al culmine delle celebrazioni russe sulla vittoria contro il nazismo ma non si spiegano solamente con l’orgoglio, legittimo, di rievocare una storia gloriosa nella quale la Russia ebbe un ruolo centrale, si spiegano meglio, forse, se confrontate con la dichiarazione di Zbigniew Brzezinski riportate in russo su portale InoSmi il 28 giugno 2005: «Da un punto di vista storico cos’è più importante? I Talebani o la caduta dell’impero sovietico? Alcuni rimescolati islamisti o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?»
Queste due affermazioni sono inconciliabili, tuttavia appartengono di diritto ad uno schema politico della storia e delle relazioni internazionali ancora tutto dentro il disegno di Jalta, ma con una differenza non trascurabile per le sorti delle nazioni. Per il popolo russo la fine dell’Unione Sovietica è stata un tragedia di proporzioni epocali che si è sviluppata sulla base di una differente ridistribuzione della ricchezza fino a quel momento sconosciuta, e di nuovi confini geografici che hanno rimescolato storie personali e sociali lesionando definitivamente una sufficiente integrazione culturale ed etnica tra le diverse repubbliche e, tuttavia, le conseguenze immani del crollo sovietico sono state sopportate solo dai popoli di quella grande nazione multietnica. Al contrario gli effetti dell’integralismo islamico, che è stato armato e sostenuto proprio per arginare l’ingerenza sovietica in Asia centrale, dall’11 settembre in poi non si può più considerare un male minore per la stabilità e la pace mondiale e le conseguenze sono gli attacchi terroristici nelle maggiori capitali occidentali e del mondo .