L'articolo è stato scritto per Galatea ed è stato pubblicato nel suo numero di novembre.
Qualcuno ha già definito gli eventi moscoviti dell'autunno 2003 come la "seconda repubblica di Putin".
L'arresto del "petroliere" Khodorkovskij segna l'inizio dello scontro tra le due fazioni della leadership russa che avevano stretto un armistizio nell'autunno di tre anni fa. Tutto lascia intuire che sarà uno scontro risolutivo, al termine del quale il potere in Russia assumerà una fisionomia diversa. Quanto nuova è ancora da decidere. Ma non si può capire niente se non si sa cos'è stata (e ancora, in parte, è) la prima repubblica. Il suo fondatore fu Boris Eltsin, questo lo sanno tutti.
Meno si sa che il "primo presidente democraticamente eletto" della Russia, appena eletto si preoccupò essenzialmente di costruire un potere personale parallelo, di tipo clientelare-feudale, che con la democrazia nulla aveva a che vedere, come adesso ci si comincia ad accorgere, sebbene con fatica. Attorno a lui si creò una strana congerie di personaggi, a metà strada tra la vecchia burocrazia statale ex comunista, la mafia dell'economia sommersa dei tempi sovietici, un gruppo di giovanotti abbastanza spregiudicati da arraffare tutto ciò che il vecchio Boris distribuiva per tenerli al guinzaglio.
Il gruppo degli oligarchi si formò all'ombra di questo sottobosco, e ricevette, in cambio dell'aiuto fornito al nuovo zar, miliardi e miliardi di dollari in regalo: la proprietà dello stato russo. E poiché il vecchio Boris era più occupato a bere che a gestire le cose dello stato, ecco fiorire una vera e propria banda di "aiutanti di campo". I nomi? Sono conosciuti quasi soltanto agli specialisti di cose russe, ma stanno ora riemergendo, nel momento dello scontro. Boris Berezovskij, Tatjana Djacenko, la figlia dello zar, Aleksandr Voloshin,, Valentin Jumashev, Anatolij Ciubais. Tra questi è d'obbligo includere anche Vladimir Gusinskij, e perfino il nostro Khodorkovskij, insieme a Egor Gaidar, a Piotr Aven, a Sergei Potanin. Un lungo elenco. Quando però fu chiaro che Boris Eltsin non poteva più reggere la situazione - esattamente nella primavera-estate del 1999 - si dovette trovare un sostituto.
Da Washington era arrivato un segnale preciso: datevi da fare e toglietecelo di mezzo. E' impresentabile. Venne usato il Corriere della Sera per lanciare il segnale: mediante la pubblicazione di una minuscola parte dei segreti bancari svizzeri dello zar e della figlia e di Boris Berezovskij. E nelle lussuose dacie hollywoodiane di Serebriannij Bor si decisero le sorti future della Russia. Ma chi (far) eleggere al popolo russo? Non c'era nessun personaggio presentabile in quella squadra. E qualcuno degli oligarchi propose Vladimir Putin. Uomo senza volto, sconosciuto, gli obiettarono. Ma poi compresero la saggezza dell'idea. Un qualunque personaggio reale, metti per esempio il generale Aleksandr Lebed, sarebbe stato pericoloso: troppo popolare. Quindi incontrollabile. Ma eleggere uno sconosciuto era difficile. E allora lo stesso oligarca-principe disse: "Costruiremo per lui una guerra vittoriosa. E gli cuciremo addosso l'abito che ci vuole, quello del salvatore della dignità russa".
Vladimir Putin fu nominato capo del governo, tra la sorpresa generale, esattamente il 9 agosto 1999, il giorno dopo che - altra sorpresa generale - il comandante ceceno Shamil Basaev aveva scatenato un'inspiegabile offensiva contro il Daghestan. La seconda guerra cecena cominciava insieme alla folgorante carriera del signor nessuno. A lui fu spiegato che non avrebbe dovuto toccare nulla della gioielleria di famiglia. A Boris Eltsin un'onorata pensione, alla sua "Famiglia" tutti gli averi fino a quel momento conquistati e la promessa di un'impunità totale per tutti i famigli, di prima e seconda generazione. Agli oligarchi la promessa solenne che le privatizzazioni non sarebbero state mai più rimesse in discussione. Al futuro zar veniva concesso di portarsi dietro i suoi favoriti, tutti provenienti dall'ex Kgb, i suoi amici di San Pietroburgo. Non si può chiedere a uno zar di non avere la sua corte.
A vigilare sul rispetto dei patti, che avrebbero dovuto prolungare la prima repubblica russa all'infinito, vennero collocati tre sorveglianti speciali. Nell'ordine d'importanza: Vladimir Voloshin, capo dell'Amministrazione Presidenziale con Eltsin; Mikhail Kasjanov, capo del governo nominato da Eltsin; Anatolij Ciubais, nominato sempre da Eltsin, prima di andarsene, alla testa del monopolio statale russo per l'energia elettrica: unico oligarca di stato tra gli oligarchi privati. Questi tre uomini detengono tutti i segreti e conoscono tutti i materiali compromettenti della repubblica eltsiniana. Ne sono stati parte integrante, e quindi sono vulnerabili, ma possono trascinare chiunque sia stato "in partita" nello stesso destino. Vladimir Putin, com'è già chiaro, è stato "in partita". E la presenza dei tre sorveglianti lo ha tenuto bloccato per tre anni pieni.
Nei quali però egli ha rafforzato lentamente la sua squadra, quella che gli analisti di cose russe chiamano la squadra dei "siloviki" (gli uomini della forza, cioè provenienti da esercito, polizia, servizi segreti). Alla quale squadra non piace "calare le braghe" (espressione verificata da chi scrive in un colloquio con uno di questi) di fronte agli americani. Il braccio di ferro è durato tre anni. Nei quali il nuovo presidente si è accontentato di liquidare due soli oligarchi: Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij. Entrambi avevano il difetto cruciale di essersi impadroniti dei due più importanti canali televisivi russi. E questo non poteva essere accettato dallo zar nuovo, perché non si sa mai cosa può fare una televisione in mano a un oligarca scontento. Risultato: due mandati di cattura nei loro confronti e emigrazione forzata di entrambi. L'altra squadra - quella di oligarchi e Famiglia - ha cominciato ad affilare le armi e a usare i suoi contatti oltre oceano per prepararsi al peggio.
L'entrata in politica del giovane Khodorkovskij è stato il segnale che erano pronti a dare battaglia. Non subito, ma per gradi. A Putin si lasciava l'inevitabile vittoria nel secondo mandato, preparando però l'avvento alla presidenza di Khodorkovskij alle successive elezioni presidenziali del 2008. Putin - che non ha la minima idea di andarsene alla fine del secondo mandato - ha risposto come sappiamo. Il patto è rotto. All'arresto di Khodorkovskij sono seguite le dimissioni di Aleksandr Voloshin dal vertice della potentissima Amministrazione presidenziale. Ciubais si è scoperto offrendo a Voloshin di diventare presidente della sua impresa Rao-EES. L'unico quasi silenzioso è Mikhail Kasjanov, l'asso di picche. Lui sa tutto di tutti.
Era lui, nel 1998, ancora giovanissimo, vice ministro delle finanze, incaricato di gestire i rapporti con il Fondo Monetario Internazionale. Fu Kasjanov che amministrò la "sparizione" dei 4,7 miliardi di dollari che il FMI aveva regalato agli oligachi alla vigilia del tremendo crack del rublo in quell'agosto. Kasjanov sa perfettamente a quali banche russe e non russe sono andati quei denari, sa quanti milioni di dollari (questo lo sa anche la Corte dei Conti russa: circa 700) sono andati a Tatjana Djacenko, quanti alla Banca Menatep, quanti nelle isole Caiman, su quali conti correnti, eccetera eccetera. Per ora Kasjanov resta al suo posto e tiene chiusa la sua cornucopia di fango. Diranno le prossime settimane e mesi se si schiererà da una parte o dall'altra. L'epopea del giovane Khodorkovskij è finita. A differenza degli altri due lui sarà punito, perché il paese - che odia all'unisono gli oligarchi - ora vuole la giusta punizione. Vladimir Putin si avvia a vincere, anzi a stravincere le prossime elezioni, che - prima ancora di cominciare - non sono già più elezioni presidenziali, ma "le elezioni di Vladimir Vladimirovic".
Per la prima repubblica russa qualche buontempone di Harvard, che l'aveva benedetta, aveva coniato il termine di "democrazia autoritaria", qualcun altro aveva usato il termine di "democrazia controllata". Eufemismi bugiardi e senza senso perché nulla di ciò che qui viene raccontato ha avuto a che fare con la democrazia. Per la semplice e banale ragione che di democrazia, in Russia, non c'è nemmeno l'ombra. Solo Silvio Berlusconi - che, per ironia della storia riassume insieme le due fugure contendenti di Khodorkovskij e di Putin, il primo "fattosi da sé", all'ombra del potere, come lui; il secondo che ha capito subito cosa significa avevere tutte le televisioni al proprio servizio, esattamente come lui - può andare a raccontare in giro che tutto va bene. Anche in Cecenia, dove le elezioni sono state una farsa indecorosa su cui ride tutto il mondo e i ceceni piangono. Purtroppo però - e anche questa è una parabola fatale - Silvio Berlusconi ha dovuto parteggiare per uno dei due. Ha dovuto scegliere Putin contro Khodorkovkij, la zar contro le sembianze (ingannevoli) del mercato.
Ma la direttiva dell'imperatore di Washington era chiara: non stare con l'Unione Europea, non criticare l'amico Putin, anzi difenderlo a spada tratta. Così il presidente di turno dell'Unione Europea ha mostrato al mondo che l'Unione Europea conta per lui meno di trenta denari. Miglior servizio all'imperatore non poteva essere concepito. Più avanti, tra qualche tempo, sarà utile ritornare sulle parole udite nella conferenza stampa di Roma. Quando la lotta a Mosca avrà trovato un suo esito temporaneo. Intanto la Russia, con questo tipo di leadership, continua ad affondare, inesorabilmente, senza un destino, senza un'idea del futuro. Le mafie hanno questo di caratteristico: che non producono niente.
Giulietto Chiesa