Sono salite in questi giorni agli onori della cronaca due storie che hanno per protagoniste delle bambine, entrambe russe, Natasha e Aleksandra, rispettivamente di cinque e sei anni.
Oltre alla nazionalità, c'è anche un altro elemento ad accomunarle: il diritto - violato - a un'infanzia normale.
Della prima notizia, riportata anche dai nostri giornali, forse già saprete: a Cita, in Siberia, la piccola Natasha ha vissuto dalla nascita in una situazione di terribile degrado ambientale, tanto da non essere in grado di parlare, acquisendo da cani e gatti di casa sia il modo di comunicare che i comportamenti.
La storia, pur nella sua "estremità", non è inverosimile, situazioni analoghe possono accadere dovunque. Inutile nasconderlo, anche da noi non sempre i servizi sociali hanno le informazioni e i mezzi necessari per evitare a quei bambini che vivono in condizioni familiari borderline di condividere la sorte di genitori alla deriva. Vittima del silenzio di chi sapeva e taceva, a Cita ci sono voluti cinque anni perché qualcuno intervenisse e avvisasse la polizia, Natasha può adesso sperare in un futuro migliore, ma chissà quali segni le lascerà in dote quest'infanzia negata.
La seconda vicenda ha avuto molta eco in Russia e riguarda la piccola Aleksandra Zarubina, 6 anni. La madre, Natalja, l'ebbe durante un soggiorno in Portogallo per motivi di lavoro. Dopo poco, però, lasciato il compagno e perso il posto di lavoro, la donna si vide costretta a cercare una famiglia a cui affidare la bambina. Aleksandra, 17 mesi, pesava meno di 6 chili, era in cattive condizioni di salute, piangeva continuamente. Trovò una coppia portoghese con l'aiuto di alcuni connazionali, firmò anche qualche carta per permettere ai genitori affidatari di prendersi cura della bimba, che andava trovare in media ogni due mesi.
Priva di regolare permesso di soggiorno e con uno stile di vita "non consono", ben presto un tribunale portoghese decise di espellerla, ma, incurante delle leggi in vigore e accontentando i genitori affidatari, anziché espellere con la madre anche la bimba, rispedì in Russia solo la prima.
Per tre anni e mezzo Natalja ha combattuto per riavere con sè Aleksandra e finalmente, con l'aiuto del consolato russo e dei giudici portoghesi che si sono occupati della sua istanza, ce l'ha fatta. Il 19 maggio, in lacrime e dopo avere opposto una strenua resistenza prima di lasciare l'auto dei genitori adottivi, Aleksandra è salita sull'aereo che la riportava a casa. Ma a quale casa, e a che prezzo?
Non c'è voluto molto perché nella rete dei blogger russi cominciassero a circolare voci, racconti di vicini e conoscenti... La madre vive in una grande abitazione alla periferia di Jaroslavl' in condizioni di grave degrado anche per i canoni russi, è troppo spesso ubriaca, altrettanto spesso violenta. La piccola, che viveva in un ambito familiare sereno e molto diverso da quello in cui si è improvvisamente ritrovata, non comprende il russo e non mangia, abituata com'era a un'alimentazione diversa. Unica persona normale su cui fare affidamento, in casa, resta, al momento, l'anziana nonna.
La partecipazione emotiva che la storia ha suscitato in Russia è notevole. In buona parte essa è dettata dal fatto che le telecamere hanno portato in tutte le case le immagini dei protagonisti, le interviste, le lacrime, ma non dimentichiamo anche che tanti hanno esperienza diretta dei guasti che un genitore alcolizzato può causare - oltre che a sé stesso - anche a un sereno sviluppo dei propri figli.
Difficile dire come finirà una storia come questa, in cui tutti hanno commesso errori e hanno serie responsabilità: i genitori naturali, quelli affidatari e i tribunali che si sono occupati della sorte della bambina. Ma la morale, quella, salta agli occhi: i giudici fanno il loro lavoro, ma le leggi e la logica raramente vanno a braccetto e a farne le spese sono - sempre - i più deboli.