ANGELI SULLA PUNTA DI UNO SPILLO
di Jurij Družnikov.
Barbera Editore, pagg.540, euro 18,50
“Angeli sulla punta di uno spillo” non è esattamente una novità editoriale. L’autore, Jurij Družnikov, scrisse questa storia insieme divertente e amara negli anni settanta, ma si è dovuto attendere che il regime sovietico allentasse la presa e che egli riuscisse a emigrare negli Stati Uniti, dove oggi vive e insegna, perché infine il suo romanzo potesse venire alla luce. In Italia, poi, arriva con un ulteriore ritardo rispetto alla pubblicazione in occidente (negli USA è uscito nel 1989) e il merito, grande, va riconosciuto a un editore “piccolo”, Barbera, a cui possiamo solo rimproverare una notevole mole di refusi sfuggiti al controllo prima della stampa.
Mosca, 1969: Igor Makarcev è il direttore di un importante quotidiano nazionale, la “Trudovaja Pravda”, a cui un giorno, nel bel mezzo della scalata ai gradini più alti della gerarchia sovietica, il fato riserva un infarto. Cos’è successo? E perché proprio a lui? Makarcev cerca di ricostruire quegli ultimi giorni per trovare una spiegazione a quanto gli è accaduto, indagando fra difficoltà familiari, preoccupazioni sul lavoro, la misteriosa comparsa di un samizdat sulla sua scrivania. Da quel momento lo sguardo dell’autore si allarga, va ad abbracciare tutti quelli che per qualche ragione circondano il protagonista a cominciare dal suo autista, la storia diventa “corale”, coinvolgendo prima la redazione del giornale e poi una società intera nelle sue più diverse componenti.
Le vite dei singoli personaggi, che Družnikov racconta man mano che il dipanarsi delle vicende li coinvolge, disegnano, attraverso i piccoli, talvolta squallidi fatti della quotidianità, un’epoca triste e rassegnata, dove la ribellione non paga, ma in cui non è necessario ribellarsi per pagare, basta trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ognuno cerca di sopravvivere come può, magari con l’aiuto della vodka, o rinunciando a pensare in modo autonomo e lasciando che sia il partito a decidere ciò che è bene e ciò che è male; altri, invece, si rinchiudono nel proprio privato, nascondendosi la triste realtà di una vita condotta in una “gabbia” non certo dorata…
Ma non è facile sfuggire al controllo di una macchina terribile che coinvolge tutti e tutto macina, dal correttore di bozze al “sopracciglione”, il Capo del partito, la sarcastica raffigurazione di Brežnev, rendendo molti dei protagonisti vittime e carnefici allo stesso tempo. Chi prova a ribellarsi, come Ivlev, il giornalista che cerca di diffondere samizdat e dubbi tra coloro che lo circondano, rischia di restarne schiacciato, e allora forse il modo migliore per restare a galla senza troppi danni è prenderla in giro, quella macchina, come il “ghost-writer” Rappaport, un giornalista ebreo reduce dai gulag staliniani, o sfruttarla come il suo amico inventore di una nuova scienza medica assai popolare tra la classe dirigente del paese, “l’impotentologia”.
“Angeli sulla punta di uno spillo” è un bel romanzo che si fa leggere d’un fiato, nonostante la mole. Il tono è pacatamente umoristico, ma non per questo Družnikov nasconde la tragedia di una popolazione costretta in una gigantesca prigione in cui vittime e aguzzini vivono le loro vite gli uni in mezzo agli altri, chi lucrando i piccoli vantaggi di una posizione di potere o facendosi largo a spintoni, chi mantenendo il più possibile un basso profilo, chi cercando una difficile via di fuga. Certo, il romanzo ha perso la sua forza dirompente di denuncia di un regime poliziesco, corrotto, costruito su bugie trasformate in realtà com’era quello sovietico, ma resta un caso di letteratura di grande qualità destinata a trovare sempre lettori interessati, giacché violenze e sopraffazioni, coraggio e miserie fanno comunque parte dell’esperienza di ogni uomo in qualsiasi sistema sociale e in esse il lettore potrà sempre riconoscere, per quanto camuffati, i virus che infettano il proprio tempo.
Marcello Brignone
Riprendiamo - grazie alla cortese autorizzazione di Marina Gersony - una sua intervista allo scrittore russo apparsa ne "Il Giornale" del 22.03.2006.
Družnikov, che cosa ricorda dei tempi della censura?
«Il mio problema è che sono nato con un grave difetto, il senso dell’umorismo. Il mio primo libro - la raccolta di racconti Non va mai a modo mio - fu pubblicato a Mosca nel 1971. L’editore fu gentile: non notò che, fra le righe, le storie parlavano di personaggi dalla vita fallimentare, in contrasto con l’idea di efficienza propagandata dal regime. Comunque l’Unione Sovietica non era felice di avere un cittadino come me, sentimento che contraccambiavo. Diversi fra imiei scritti furono proibiti, le proteste di scrittori e politici occidentali mi salvarono dal gulag. Mi ritirarono il passaporto e mi cacciarono. Era il 1987. Andai a Roma. Ricordo che mi piazzai proprio al centro del Colosseo e cominciai a piangere come un bambino ».
Lei riuscì a fondare una sua casa editrice nonostante fosse stato radiato dall’Unione degli Scrittori Sovietici e dichiarato traditore della patria. Non aveva paura?
«Ho temuto il peggio quando, durante una perquisizione della polizia segreta nell’appartamento del mio amico scrittore Georgy Vladimov, fu trovata una parte del mio manoscritto. E dopo che Andropov, che all’epoca era il capo del Kgb, si riconobbe nel personaggio di Kegelbanov. Non fui arrestato: non avevano fretta, e forse Andropov era curioso di vedere che cosa gli sarebbe accaduto nel romanzo che stavo ultimando. Ma poco dopo morì. In quel periodo, ogni volta che sentivamo pronunciare il mio nome a una radio straniera, mia moglie si faceva prendere dal panico, mentre io mi sforzavo di non apparire spaventato».
Che cosa provò quando nel 1985 il Kgb le impose di scegliere fra l’internamento e il manicomio?
«Scrivere era un’attività che esercitavo a mio rischio e pericolo. In qualunque momento potevano farti sparire. Avevo comunicato le mie volontà a mia moglie e a pochi amici. Se un giorno non fossi tornato a casa, qualunque cosa avessi potuto dire dopo le loro iniezioni, le mie carte avrebbero dovuto essere pubblicate all’estero. Ma all’improvviso arrivò una tempesta di lettere di protesta da parte di scrittori occidentali (Kurt Vonnegut, Arthur Miller, Elie Wiesel), dal Congresso americano, dall’International Pen Club, da studenti italiani eccetera. Una grande solidarietà».
Che cosa provò quando il suo libro fu pubblicato dopo il colpo di Stato a Mosca nel 1991?
«Furono fatti diversi tentativi per pubblicare Angeli sulla punta di uno spillo durante la glasnost. Perfino alcuni libri di Solženicyn furono dati alle stampe, ma non il mio romanzo. Credo sia stato il Kgb a porre il veto. In seguito, dopo il crollo dell’Urss, in sole tre settimane il mio libro vendette 250mila copie (e forse molte di più, se consideriamo quelle illegali). Per me fu come essere nato una seconda volta. I russi poterono leggere Il dottor Zivago di Pasternak 31 anni dopo la sua pubblicazione in Italia; furono sufficienti invece solo 25 anni perché fosse consentito di leggere il mio romanzo. Un bel passo avanti».
Quali sono secondo lei i più grandi mali del comunismo e del capitalismo?
«Sotto il comunismo la gente è vittima di un futuro che non arriva mai. Invece, sotto il capitalismo la gente ha già sperimentato il futuro e qualcuno desidera provare il comunismo. Il comunismo è perfetto per i pigri e i conformisti. Così essi ricevono tutti i giorni pane e vodka a buon mercato dal governo. Il capitalismo è fatto per chi ha spirito d’iniziativa ed è pieno di energie: nel mondo capitalistico gli individui sono responsabili di ogni cosa, persino di ciò che fa il governo. Non c’è una verità assoluta sulla terra, e direi che non ce n’è una nemmeno nell’intero universo ».
Nostalgia del suo Paese?
«Ho un passaporto americano e posso recarmi ovunque, inclusi i Paesi dell’ex blocco sovietico. Ma se voglio tornare nella mia madrepatria devo chiedere un permesso e pagare per un visto. E chi decide se concedermelo o meno? Dei mediocri chiusi nei loro uffici segreti a Mosca. Questo è ancora più ridicolo se pensiamo che più di un milione di clandestini attraversa i confini russi ogni anno. E, una volta entrati, riescono a comprarsi la cittadinanza con una bustarella di 200 dollari. Il mio motto è nelle parole pronunciate da Thomas Mann durante gli anni trascorsi in California: “Dove sono io, c’è lo spirito tedesco”. Mi basta cambiare la parola “tedesco” con “russo”. No, non ho nessuna nostalgia. Tutti i fuoriusciti dalla Russia e da ogni altro Paese del mondo sono i benvenuti nella mia casa in California ».
E la Russia di Putin?
«Dietro il nuovo nome di Fsb (Federalnaya Sluzhba Bezopasnosti, ndr) si nascondono i vecchi quadri dirigenti del Kgb. O, se preferisce, può chiamarla mafia di Stato, potenziale dittatura della polizia segreta, o persino democrazia alla Russa. Hanno 800mila ufficiali e circa 11 milioni di informatori sparsi in tutto il Paese e anche all’estero. Ciò significa che, in Russia, ogni quattordici persone una fa la spia alla polizia riferendo ogni tuo passo. In breve, il succo della mia risposta è che, sì, mi piace il signor Putin. Almeno si capisce a chi appartiene. Ma mi resta la tristezza di dover constatare che ciò che avevo denunciato nel mio romanzo Angeli sulla punta di uno spillo si è realizzato: la vera democrazia in Russia è ancora lontana da venire, non dobbiamo illuderci».
M. Gersony