i marinai russi raccontano il terremoto del 28 Dicembre 1908

di Tatiana A. Ostakhova

pagg.202, euro 11.80 (2009)
Leonida Edizioni

Una delle pagine che più ha segnato i rapporti fra Messina, i suoi cittadini e la Russia è costituita senza dubbio dall’aiuto prestato proprio all’indomani del terremoto del 1908 dalla flotta russa, che proprio in quei giorni era di stanza ad Augusta. Il tempestivo soccorso e l’eroismo con il quale i marinai russi si prodigarono negli aiuti sono un ricordo ancor vivo nella nostra città che viene tramandato fra le generazioni: se è pur vero che nel corso del secolo scorso lo sguardo rivolto alla Russia è stato pesantemente influenzato dalle varie vicende politiche, a Messina la Russia ed i suoi figli sono stati sempre accolti nel segno della benevolenza e della gratitudine.

Oggi Tatiana Ostakhova ha voluto ripercorrere la vicenda di quel primo aiuto alla città distrutta, con un accenno al quadro internazionale dell’epoca ed ai movimenti della Flotta del Baltico che si trovava nel Mar Mediterraneo per delle esercitazioni, soffermandosi particolarmente sulle varie fasi dell’intervento di soccorso. Alla notizia del terremoto, l’ammiraglio Livitinov , su pressione degli ufficiali e degli altri componenti delle navi, decise di far rotta immediata verso Messina senza aspettare le autorizzazioni da parte dei comandi supremi in Russia e, una volta arrivati in città, i marinai russi si distinsero per sacrificio ed ardore nei soccorsi, riuscendo così a salvare molte vite umane e a prestare assistenza ai superstiti. L’eco di queste gesta ebbe grande risonanza sulla stampa e i russi divennero gli “eroi” per tutti gli italiani, come dimostrarono le grandi manifestazioni di entusiasmo con le quali furono accolti negli scali di Napoli, dove si recarono per trasportare i feriti. La reputazione stessa della Russia nel mondo trasse grande giovamento per gli apprezzamenti unanimi verso i marinai russi in azione a Messina. Queste vicende, in parte già note al grande pubblico, sono ricostruite con cura in questo libro di Tatiana Ostakhova , ricco di particolari inediti e minuziosi, ma soprattutto con il grande pregio di offrirci la prospettiva personale dei soccorritori: nel libro infatti sono riportate e tradotte numerose lettere che i marinai russi scrissero in quei giorni e che ci danno l’immediata percezione delle emozioni che questi uomini provarono alla vista della tragedia e dei sentimenti che li animarono nelle opere di soccorso. Leggendo le varie lettere possiamo quasi scrutare con i loro occhi fra le macerie per cercare i superstiti, sospendere l’orecchio in cerca di una voce, di un segnale rivelatore di vita: i racconti che inviarono a casa sono fatti della cronaca quotidiana degli aiuti, della scarna descrizione delle case distrutte e dei tanti episodi di umanità, come anche dei problemi operativi e della lotta agli sciacalli. Raramente si ha la possibilità quasi di toccare con mano i protagonisti degli eventi , di sentire la loro voce come di fronte a queste lettere e alle storie che raccontano.

Un libro quindi da non perdere per chi vuole cogliere gli aspetti personali ed emozionali dei protagonisti e che fa più nitida la ricostruzione di quei giorni fatidici.

 

Maurizio Lo Passo

 

 

Riportiamo una delle lettere presenti nel libro, scritta dal porto di Augusta il 3 gennaio 1909 da un giovane marinaio ai familiari in Russia.

Passo queste festività con uno stato d'animo tristissimo. Avrete, sicuramente, appreso dai giornali della sciagura che ha colpito Messina. C'era da impazzire alla vista di quelle scene. Viverle di persona non è stato facile. Scusate per la lettera poco allegra, ma non posso farci niente, ho i nervi a pezzi.
Viste dal mare, le distruzioni non sembravano eccessive, ma quando alle 8:00 del mattino è sbarcata la nostra prima squadra, siamo rimasti inorriditi. Sulla banchina si erano raccolte tantissime persone che ci salutavano con fazzoletti e cappelli; appena sbarcammo, si precipitarono verso di noi con la schiuma alla bocca, gridando: «Ho tre famigliari seppelliti: mio padre, mia madre, mia sorella. Mandate aiuti, soccorreteli al più presto», «Mandate soccorsi, mio padre sta morendo». Altre, invece, ci sono avvicinate senza dir nulla. Avevano tutti gli occhi stralunati, vacui, molti i volti ustionati, malati, vestiti di stracci e di cenci. Ci hanno condotto di corsa verso le macerie.
Quale orrore ci ha colti alla vista del molo e delle vie. Quasi tutte le case erano crollate, ingombrando le strade fino al primo piano. In alcuni punti erano rimaste mura che oscillavano ad ogni minimo soffio di vento. I calcinacci cadevano continuamente. Mucchi di pietre, pietrisco, mattoni; persone seminude e simili a selvaggi che tentavano di salvare i propri beni. C'era chi prendeva una scatola vuota e la riempiva di giornali, chi strappava una tenda vecchia e vi si avvolgeva, mentre accanto, magari, c'era un armadio con vestiti.
I nostri marinai hanno lavorato in modo ammirevole, rischiando anche di restare schiacciati, ma sembrava che una mano invisibile li proteggesse. Il nostro direttore di macchina era rimasto intrappolato sotto le macerie e per un quarto d'ora non ha sentito le nostre voci, sebbene i marinai scavassero alacremente per disseppellirlo. Gente veniva tirata fuori da sotto le mura e i tetti crollati.
Quando, a sera, ho deciso di rientrare sulla nave, sopra la città si consumava minacciosamente il bagliore degli incendi. Anziché dai fanali la città era illuminata dai nostri proiettori in rada, le mura gemevano, dappertutto si sentivano provenire flebili lamenti. Quanti se ne sono spenti solo nel primo giorno, quanti hanno continuato ad udirsi... Tutte, tutte rovine racchiudevano ancora tante vite. La cosa più difficile era sopportare i rimproveri delle persone che chiedevano pane o acqua. Subito dopo la prima squadra sono stati mandati a terra i cuochi e le provviste: gallette, crostoni, pane. Mi ha riempito di gioia vedere i volti di una famiglia benestante illuminarsi quando avevano dato loro delle semplici gallette dei nostri marinai. Di notte, a volte, qualcuno chiedeva: «Dacci del pane. Dacci del pane», «Non ne ho», «Allora, perché sei qui?»
I nostri ospedali da campo sono stati operativi giorno e notte. La mattina stessa abbiamo iniziato ad imbarcare i feriti.

"Kievskaja misl'", N°11782 del 30 dicembre 1908 (12 gennaio 1909)