Il tema iconografico sovente si riduce ad un problema di storia dell'arte, specificatamente dell'arte religiosa bizantina, ovvero di un fenomeno artistico che sopravvisse a se stesso ed è tuttora osservabile specialmente nel suo rampollo russo.
Quando nel XII secolo, Giotto, Duccio e Cimabue, introdussero nella pittura la prospettiva, la profondità, lo scorcio e il gioco del chiaroscuro, l'immagine si separò dal mistero liturgico nel quale era integrata, venne allontanata dal sacro, dall'essere una visione rivolta sul mondo delle realtà invisibili e, l'arte, divenne una esclusiva espressione soggettiva - una solitaria e spesso malinconica ricerca psicologica della bellezza e del suo contrario in un mondo sempre più sfigurato dall'uomo.
L'arte rinascimentale abbandonò la trascendenza dell'immagine e l'icona divenne, per l'occidente, l'ultima espressione “della goffa maniera greca”.
La pittura rinascimentale trasferì l’immagine nella parola, trasformò il simbolo in linguaggio. Un linguaggio intellettuale e realistico accessibile al solo gusto estetico.
L’immagine e la parola: l’una per mostrare l’esistenza e l’esistente trascendente rivelandolo nella luce del colore; l’altra per dimostrare qualcosa circa la conoscenza dell’esistente e dell’epilogo futuro.
Mentre la parola dimostra in quanto asservita al pensiero e, attraverso il suono, comunica la realtà sensibile percepita dai ricettori celebrali e con il pensiero agisce e interagisce per spiegare e giustificare tanto il pensiero stesso quanto le realtà conosciute, appunto dimostrandole; l’immagine non costringe con argomenti ma convince con la propria evidenza, non dimostra mostra attraverso se stessa il suo acherotipo e lo rivela.
L’immagine come rivelazione del pre-esistente non deve giustificare con rivestimenti intellettuali la conoscenza della realtà raffigurata, essa trascende l’immagine stessa.
L'icona è ben lungi dall'essere una semplice espressione artistica, un retaggio di tramontate testimonianze religiose nelle quali vi si rintracciano i soli gusti culturali ed estetici di un impero, quello d'oriente, che nella sua storia millenaria non separò mai la fede e la religione dal potere come dall'arte e dalla cultura.
I profili dell'icona sono, invece, molteplici, artistici sicuramente, storici indiscutibilmente ma, soprattutto, spirituali.
L'icona per i credenti ortodossi è specialmente "luogo d'incontro", una finestra aperta sull'aldilà.
Qualsiasi studio o tentativo di conoscere l'icona separandola dal mistero liturgico, dall'essere parte integrante della rivelazione cristiana, sarebbe incomprensibile, tanto quanto lo studio della fisica moderna separata dall'atomo.
I colori dell'icona sarebbero incomprensibili, le figure immobili e allungate, la natura e le quinte architettoniche irreali e inesatte, l'assenza di prospettiva e altro ancora ci apparirebbe al meglio ingenuo e comunque privo di estetica.
Eppure queste "ingenue" immagini dipinte su tavole di legno stanno riscuotendo un significativo successo anche in paesi che, storicamente, hanno avuto un diverso percorso artistico e religioso da quello delle civiltà d’origine greco-bizantina.
Se, un tempo, le icone erano apprezzate esclusivamente dal mondo della cultura, soprattutto per il loro valore estetico nel quale è possibile scorgere il sentimento religioso e le tradizioni di popoli ritenuti lontani e ancora distanti dalla nostra civiltà, oggi sono diventate quasi un oggetto di diffusione di massa.
Esposizioni, mostre private, articoli, libri e tante riproduzioni fotografiche entrano nel mercato della cultura di consumo. Un fenomeno che è tutt'altra sostanza dalla riscoperta dell'icona come parte significativa della comune spiritualità cristiana.
Generalmente i credenti cattolici non sanno più riconoscere la ricchezza spirituale dell'icona, abbandonata da troppi secoli, i non credenti ne sono invece affascinati dal gusto esotico ma, sia nell'uno sia nell'altro caso, l'approccio inaridisce la sostanza teologica dell'icona.
Occorre ritornare al suo significato spirituale, posto ben oltre la barriera della somma delle impressione estetiche che l'icona invia allo sguardo profano ed entrare dentro il contenuto, il suo contenuto segreto che la nostra civiltà ha espulso dalle cose di questo mondo.
Riscoprire l'icona comporta un ritorno alle tradizioni comuni a tutti i cristiani, si può affermare che per capire nuovamente l'icona occorre riscoprire il significato più elevato del messaggio evangelico.
Il piano strettamente spirituale dell'icona è il fondamento stesso del cristianesimo, il dogma inviolabile di ciò che la teologia chiama economia della salvezza: l'incarnazione di Dio.
L'icona testimonia il Dio-Uomo, le due nature in una sola ed inscindibile persona - Ipostasi.
Senza il Dio-Uomo l'icona non sarebbe possibile, agirebbe ancora il divieto vetero-testamentario che proibisce di raffigurare la divinità in quanto inconoscibile e ogni tentativo di rappresentarla creerebbe idoli e feticci.
Il volto del Cristo-Uomo è il volto di Dio-Figlio, chi vede me vede il Padre rivela Gesù agli Apostoli.
Il volto del Figlio è l'immagine paradigmatica di tutto il cristianesimo, la sua essenza spirituale e, l'icona, testimoniandolo, ce lo rende presente. Dice S.Paolo: "Il Cristo è immagine del Dio invisibile."
I cristiani, infatti, non adorano l'icona ma ciò che essa testimonia: la manifestazione di Cristo.
Il volto di Cristo è la prima vera icona che nessuno mai ritrasse.
Il volto restò impresso, secondo una leggenda, sul telo di lino che Gesù inviò a re Abgar di Edessa, perciò il volto che conosciamo è detto achiropita ovvero non fatto da mano umana.
Nuovamente il mistero dell'incarnazione del Cristo vero dio e vero uomo e l'icona, nei suoi colori immutabili, lo esprime: rosso-porpora della veste simbolo della divinità, blu del mantello simbolo dell'umanità che Cristo ha preso su di sé.
Nell'icona i colori non devono produrre effetti cromatici e illusionistici né seguire necessariamente le regole della complementarità del colore, in essi si esprime unicamente la definizione teologica elaborata dai Padri della chiesa che, nella pittura rinascimentale prima, e contemporanea poi, è stata abbassata a motivo di semplice ispirazione.
Nell'arte religiosa occidentale resta il soggetto della rivelazione ma non più la sacralità.
I colori, nel bisogno di reinterpretare il dogma e di adattarlo sempre più alla pressione esercitata dalla crescente laicità delle coscienze religiose, diventano mezzi espressivi della personalità soggettiva dell'artista, della sua intima inquietudine di fronte al sacro e, l'arte religiosa da teocentrica diventa antropocentrica.
Il volto del Cristo sulla croce perde la serenità della consapevolezza della vittoria sulla morte. Nell'arte rinascimentale e contemporanea la morte di Cristo si esprime in una torsione di dolore che strazia il volto, sconvolto dal sangue che scende abbondante da una corona di spine sconosciuta nell'arte iconografica..
E' la morte dei sensi, definitiva del corpo umano oltre il quale c'è solo lo sgomento dei vivi che s'interrogano sul senso della vita di fronte all'abisso della morte.
Cristo sulla croce, dipinto con il linguaggio del realismo, è sconfitto come l'umanità stessa che rinuncia a vivere rassegnandosi nella propria quotidianità priva di attese future. Ben altra testimonianza ce né da l'icona.
La morte di Cristo squarcia l'impero delle tenebre che ha soggiogato l'uomo, tutto si è compiuto per riscattare l' uomo dal peccato, dall'essere privo di bene. Il male e il peccato, per l'oriente, è semplicemente uno stato: l'assenza di bene. L’uomo incapace d’amore.
Con Cristo è la morte a perire. Se gli occhi chiusi indicano la morte, il volto, senza lo strazio del dolore e rivolto verso la madre trasmette la somma dogmatica dell'incorruttibilità del corpo nell'aldilà.
elle icone, Cristo, non è mai ritratto nello spasimo agonizzante che lo conduce alla morte e lacera la sua carne, Egli esprime sempre la sua regalità. "Io lo vedo crocifisso e lo chiamo Re."
Le differenze, dunque, non stanno semplicemente nell'uso diverso dei colori e della prospettiva ma nella finalità dell'immagine, l'una parte essenziale della vita spirituale inerente al rapporto tra l'uomo e Dio, l'altra appartiene soggettivamente al livello culturale ed emozionale dell'artista e la sua finalità è esclusivamente estetica.
Non è un caso che le immagini nelle icone non sono ritratte secondo le leggi della prospettiva che organizza persone e oggetti così come noi li vediamo nel mondo delle cose sensibili, ma ce le presenta in una dimensione non reale, appunto, come se le immagini e tutto ciò che vi è intorno non fosse già più di questo mondo.
Come afferma Leon Battista Alberti le opere pittoriche sono come una finestra aperta sul mondo. L'artista cerca di riprodurre nel quadro la realtà da lui osservata o traducendo con colori e segni quella della sua fantasia. Per farlo si affida a tecniche che ricostruiscono spazialmente la realtà.
La prospettiva in questo caso è diretta o lineare. La tridimensionalità e tutte le linee di fuga consentono allo sguardo di riconoscere l'immagine nella posizione che essa avrebbe nella realtà sia che fosse in relazione solo con la superficie della tela che con altri oggetti o cose disposte intorno ad essa.
Tutto questo nell'icona semplicemente non esiste. La ragione è chiara: l'iconografo non deve affatto riprodurre la realtà delle cose né la relazione esistente tra loro secondo i principi del realismo figurativo.
In questo caso la prospettiva è rovesciata. Se la prospettiva diretta presenta l'immagine così come essa sarebbe percepita all'esterno come se il quadro fosse una "finestra sulla natura" in quanto il punto di vista dell'artista si trova in un rapporto esterno, affacciato sul mondo, e la somma delle sue impressioni dalla tela si trasmette allo spettatore unificando entrambi i due punti di vista, nella prospettiva rovesciata l'immagine non è percepita all'esterno bensì all'interno. La posizione visuale dell'iconografo è dentro il quadro, partecipa del mondo raffigurato.
Ne consegue che le linee di fuga sono poste all'interno e non coincidono con un punto di vista esterno da qui la caratteristica deformazione dell'immagine ma, l'iconografo, collocandosi all'interno del mondo raffigurato fa sì che anche lo sguardo dell'osservatore assuma una posizione interna.
Si può affermare che a differenza dell'arte rinascimentale in cui l'artista assume una posizione esterna al quadro e distaccata, nell'iconografia, il pittore, collocandosi all'interno del quadro raffigura intorno a sé un mondo a cui non è affatto estraneo e l'arte, in tal modo, non si separa dal mistero rappresentato attraverso i colori.
Così come il sacerdote e i fedeli sono un tutt'uno con Dio nel mistero celebrato nella liturgia.
Ciò che il Vangelo ci dice con la parola, l'icona ce l'annuncia coi colori e ce lo rende presente." L'icona è dunque un luogo teologico una "teologia attraverso i colori".
Se in origine l'uso di dipingere i muri delle chiese e le volte rispondeva al bisogno di spiegare e far conoscere la storia sacra anche agli analfabeti che non potevano leggere i vangeli, in oriente questa funzione solamente didattica delle origini non rimase la prevalente.
Mentre in occidente l'uso di dipingere le chiese ben presto si tramutò in arte decorativa sempre più estetica variando col mutare degli stili e in accordo con i gusti socialmente prevalenti, in oriente l'arte restò ancorata alle tradizioni e l'icona divenne un sacramentale.
L'icona in quanto simbolo della presenza divina, in virtù della sua somiglianza al prototipo, partecipa della spiritualità dei credenti. Attraverso l'icona il credente ortodosso contempla il volto di Cristo e si apre alla visione delle realtà invisibili, e l'icona diviene un ponte gettato tra l'uomo e Dio.
Quando nel XII secolo, Giotto, Duccio e Cimabue, introdussero nella pittura la prospettiva, la profondità, lo scorcio e il gioco del chiaroscuro, l'immagine si separò dal mistero liturgico nel quale era integrata, venne allontanata dal sacro, dall'essere una visione rivolta sul mondo delle realtà invisibili e, l'arte, divenne una esclusiva espressione soggettiva - una solitaria e spesso malinconica ricerca psicologica della bellezza e del suo contrario in un mondo sempre più sfigurato dall'uomo.
L'arte rinascimentale abbandonò la trascendenza dell'immagine e l'icona divenne, per l'occidente, l'ultima espressione “della goffa maniera greca”.
La pittura rinascimentale trasferì l’immagine nella parola, trasformò il simbolo in linguaggio. Un linguaggio intellettuale e realistico accessibile al solo gusto estetico.
L’immagine e la parola: l’una per mostrare l’esistenza e l’esistente trascendente rivelandolo nella luce del colore; l’altra per dimostrare qualcosa circa la conoscenza dell’esistente e dell’epilogo futuro.
Mentre la parola dimostra in quanto asservita al pensiero e, attraverso il suono, comunica la realtà sensibile percepita dai ricettori celebrali e con il pensiero agisce e interagisce per spiegare e giustificare tanto il pensiero stesso quanto le realtà conosciute, appunto dimostrandole; l’immagine non costringe con argomenti ma convince con la propria evidenza, non dimostra mostra attraverso se stessa il suo acherotipo e lo rivela.
L’immagine come rivelazione del pre-esistente non deve giustificare con rivestimenti intellettuali la conoscenza della realtà raffigurata, essa trascende l’immagine stessa.
L'icona è ben lungi dall'essere una semplice espressione artistica, un retaggio di tramontate testimonianze religiose nelle quali vi si rintracciano i soli gusti culturali ed estetici di un impero, quello d'oriente, che nella sua storia millenaria non separò mai la fede e la religione dal potere come dall'arte e dalla cultura.
I profili dell'icona sono, invece, molteplici, artistici sicuramente, storici indiscutibilmente ma, soprattutto, spirituali.
L'icona per i credenti ortodossi è specialmente "luogo d'incontro", una finestra aperta sull'aldilà.
Qualsiasi studio o tentativo di conoscere l'icona separandola dal mistero liturgico, dall'essere parte integrante della rivelazione cristiana, sarebbe incomprensibile, tanto quanto lo studio della fisica moderna separata dall'atomo.
I colori dell'icona sarebbero incomprensibili, le figure immobili e allungate, la natura e le quinte architettoniche irreali e inesatte, l'assenza di prospettiva e altro ancora ci apparirebbe al meglio ingenuo e comunque privo di estetica.
Eppure queste "ingenue" immagini dipinte su tavole di legno stanno riscuotendo un significativo successo anche in paesi che, storicamente, hanno avuto un diverso percorso artistico e religioso da quello delle civiltà d’origine greco-bizantina.
Se, un tempo, le icone erano apprezzate esclusivamente dal mondo della cultura, soprattutto per il loro valore estetico nel quale è possibile scorgere il sentimento religioso e le tradizioni di popoli ritenuti lontani e ancora distanti dalla nostra civiltà, oggi sono diventate quasi un oggetto di diffusione di massa.
Esposizioni, mostre private, articoli, libri e tante riproduzioni fotografiche entrano nel mercato della cultura di consumo. Un fenomeno che è tutt'altra sostanza dalla riscoperta dell'icona come parte significativa della comune spiritualità cristiana.
Generalmente i credenti cattolici non sanno più riconoscere la ricchezza spirituale dell'icona, abbandonata da troppi secoli, i non credenti ne sono invece affascinati dal gusto esotico ma, sia nell'uno sia nell'altro caso, l'approccio inaridisce la sostanza teologica dell'icona.
Occorre ritornare al suo significato spirituale, posto ben oltre la barriera della somma delle impressione estetiche che l'icona invia allo sguardo profano ed entrare dentro il contenuto, il suo contenuto segreto che la nostra civiltà ha espulso dalle cose di questo mondo.
Riscoprire l'icona comporta un ritorno alle tradizioni comuni a tutti i cristiani, si può affermare che per capire nuovamente l'icona occorre riscoprire il significato più elevato del messaggio evangelico.
Il piano strettamente spirituale dell'icona è il fondamento stesso del cristianesimo, il dogma inviolabile di ciò che la teologia chiama economia della salvezza: l'incarnazione di Dio.
L'icona testimonia il Dio-Uomo, le due nature in una sola ed inscindibile persona - Ipostasi.
Senza il Dio-Uomo l'icona non sarebbe possibile, agirebbe ancora il divieto vetero-testamentario che proibisce di raffigurare la divinità in quanto inconoscibile e ogni tentativo di rappresentarla creerebbe idoli e feticci.
Il volto del Cristo-Uomo è il volto di Dio-Figlio, chi vede me vede il Padre rivela Gesù agli Apostoli.
Il volto del Figlio è l'immagine paradigmatica di tutto il cristianesimo, la sua essenza spirituale e, l'icona, testimoniandolo, ce lo rende presente. Dice S.Paolo: "Il Cristo è immagine del Dio invisibile."
I cristiani, infatti, non adorano l'icona ma ciò che essa testimonia: la manifestazione di Cristo.
Il volto di Cristo è la prima vera icona che nessuno mai ritrasse.
Il volto restò impresso, secondo una leggenda, sul telo di lino che Gesù inviò a re Abgar di Edessa, perciò il volto che conosciamo è detto achiropita ovvero non fatto da mano umana.
Nuovamente il mistero dell'incarnazione del Cristo vero dio e vero uomo e l'icona, nei suoi colori immutabili, lo esprime: rosso-porpora della veste simbolo della divinità, blu del mantello simbolo dell'umanità che Cristo ha preso su di sé.
Nell'icona i colori non devono produrre effetti cromatici e illusionistici né seguire necessariamente le regole della complementarità del colore, in essi si esprime unicamente la definizione teologica elaborata dai Padri della chiesa che, nella pittura rinascimentale prima, e contemporanea poi, è stata abbassata a motivo di semplice ispirazione.
Nell'arte religiosa occidentale resta il soggetto della rivelazione ma non più la sacralità.
I colori, nel bisogno di reinterpretare il dogma e di adattarlo sempre più alla pressione esercitata dalla crescente laicità delle coscienze religiose, diventano mezzi espressivi della personalità soggettiva dell'artista, della sua intima inquietudine di fronte al sacro e, l'arte religiosa da teocentrica diventa antropocentrica.
Il volto del Cristo sulla croce perde la serenità della consapevolezza della vittoria sulla morte. Nell'arte rinascimentale e contemporanea la morte di Cristo si esprime in una torsione di dolore che strazia il volto, sconvolto dal sangue che scende abbondante da una corona di spine sconosciuta nell'arte iconografica..
E' la morte dei sensi, definitiva del corpo umano oltre il quale c'è solo lo sgomento dei vivi che s'interrogano sul senso della vita di fronte all'abisso della morte.
Cristo sulla croce, dipinto con il linguaggio del realismo, è sconfitto come l'umanità stessa che rinuncia a vivere rassegnandosi nella propria quotidianità priva di attese future. Ben altra testimonianza ce né da l'icona.
La morte di Cristo squarcia l'impero delle tenebre che ha soggiogato l'uomo, tutto si è compiuto per riscattare l' uomo dal peccato, dall'essere privo di bene. Il male e il peccato, per l'oriente, è semplicemente uno stato: l'assenza di bene. L’uomo incapace d’amore.
Con Cristo è la morte a perire. Se gli occhi chiusi indicano la morte, il volto, senza lo strazio del dolore e rivolto verso la madre trasmette la somma dogmatica dell'incorruttibilità del corpo nell'aldilà.
elle icone, Cristo, non è mai ritratto nello spasimo agonizzante che lo conduce alla morte e lacera la sua carne, Egli esprime sempre la sua regalità. "Io lo vedo crocifisso e lo chiamo Re."
Le differenze, dunque, non stanno semplicemente nell'uso diverso dei colori e della prospettiva ma nella finalità dell'immagine, l'una parte essenziale della vita spirituale inerente al rapporto tra l'uomo e Dio, l'altra appartiene soggettivamente al livello culturale ed emozionale dell'artista e la sua finalità è esclusivamente estetica.
Non è un caso che le immagini nelle icone non sono ritratte secondo le leggi della prospettiva che organizza persone e oggetti così come noi li vediamo nel mondo delle cose sensibili, ma ce le presenta in una dimensione non reale, appunto, come se le immagini e tutto ciò che vi è intorno non fosse già più di questo mondo.
Come afferma Leon Battista Alberti le opere pittoriche sono come una finestra aperta sul mondo. L'artista cerca di riprodurre nel quadro la realtà da lui osservata o traducendo con colori e segni quella della sua fantasia. Per farlo si affida a tecniche che ricostruiscono spazialmente la realtà.
La prospettiva in questo caso è diretta o lineare. La tridimensionalità e tutte le linee di fuga consentono allo sguardo di riconoscere l'immagine nella posizione che essa avrebbe nella realtà sia che fosse in relazione solo con la superficie della tela che con altri oggetti o cose disposte intorno ad essa.
Tutto questo nell'icona semplicemente non esiste. La ragione è chiara: l'iconografo non deve affatto riprodurre la realtà delle cose né la relazione esistente tra loro secondo i principi del realismo figurativo.
In questo caso la prospettiva è rovesciata. Se la prospettiva diretta presenta l'immagine così come essa sarebbe percepita all'esterno come se il quadro fosse una "finestra sulla natura" in quanto il punto di vista dell'artista si trova in un rapporto esterno, affacciato sul mondo, e la somma delle sue impressioni dalla tela si trasmette allo spettatore unificando entrambi i due punti di vista, nella prospettiva rovesciata l'immagine non è percepita all'esterno bensì all'interno. La posizione visuale dell'iconografo è dentro il quadro, partecipa del mondo raffigurato.
Ne consegue che le linee di fuga sono poste all'interno e non coincidono con un punto di vista esterno da qui la caratteristica deformazione dell'immagine ma, l'iconografo, collocandosi all'interno del mondo raffigurato fa sì che anche lo sguardo dell'osservatore assuma una posizione interna.
Si può affermare che a differenza dell'arte rinascimentale in cui l'artista assume una posizione esterna al quadro e distaccata, nell'iconografia, il pittore, collocandosi all'interno del quadro raffigura intorno a sé un mondo a cui non è affatto estraneo e l'arte, in tal modo, non si separa dal mistero rappresentato attraverso i colori.
Così come il sacerdote e i fedeli sono un tutt'uno con Dio nel mistero celebrato nella liturgia.
Ciò che il Vangelo ci dice con la parola, l'icona ce l'annuncia coi colori e ce lo rende presente." L'icona è dunque un luogo teologico una "teologia attraverso i colori".
Se in origine l'uso di dipingere i muri delle chiese e le volte rispondeva al bisogno di spiegare e far conoscere la storia sacra anche agli analfabeti che non potevano leggere i vangeli, in oriente questa funzione solamente didattica delle origini non rimase la prevalente.
Mentre in occidente l'uso di dipingere le chiese ben presto si tramutò in arte decorativa sempre più estetica variando col mutare degli stili e in accordo con i gusti socialmente prevalenti, in oriente l'arte restò ancorata alle tradizioni e l'icona divenne un sacramentale.
L'icona in quanto simbolo della presenza divina, in virtù della sua somiglianza al prototipo, partecipa della spiritualità dei credenti. Attraverso l'icona il credente ortodosso contempla il volto di Cristo e si apre alla visione delle realtà invisibili, e l'icona diviene un ponte gettato tra l'uomo e Dio.
Luigi Novelli