Il Battesimo della Rus' (988) diventa festa civile per tutta la Russia di oggi. Secondo Adalberto Mainardi, esperto studioso e monaco di Bose, quel complesso evento che più di mille anni fa segnò "l'ufficializzazione del culto cristiano nella Rus' di Kiev non si limitava a un'abile azione diplomatica, che la corte imperiale di Bisanzio aveva già sperimentato con successo con gli slavi dei Balcani: non creava solo l'alveo in cui trovava espressione unitaria un agglomerato politico sociale dai contorni ancora instabili, ma apriva una storia nuova, culturale, artistica, religiosa. Iniziava una nuova avventura spirituale".
IL BATTESIMO DELLA RUS’1
Il suo significato permanente nella tradizione spirituale russa
Ringraziamo Dio per la sua straordinaria grazia, effusa su di noi, come disse l’apostolo: “Grazie a Dio per il suo dono ineffabile!”2 Ma ora noi abbiamo una ragione particolare per ringraziare Dio, che ci ha donato un tale santo starec, intendo dire il santo monaco Sergio, nella nostra terra di Russia, nel nostro paese della mezzanotte, in questi nostri giorni, in questi ultimi tempi ed anni3.
L’inizio della Vita di san Sergio (1314?-1392), scritta dal suo discepolo Epifanio, colloca già subito il lettore negli “ultimi tempi”, nell’attesa escatologica della Parusia imminente. La vita del santo è un anticipo del destino dell’umanità in Cristo alla fine della storia. Nella grata meraviglia per il manifestarsi della bellezza del volto di Cristo in un uomo e in una forma vitae concreti4, l’agiografo ripete, quasi inconsciamente, lo stupore per il diffondersi dell’annuncio della Buona Novella che era stato del metropolita di Kiev Ilarion, all’alba della storia della Rus’ cristiana – e si potrebbe dire della Rus’ tout-court –: “La fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi”5.
Secondo alcuni storici, come Andrzej Poppe, Ilarione avrebbe letto il suo sermone sulla Legge e la Grazia davanti al sepolcro del gran principe Vladimir, che aveva preso il nome di Basilio nel momento del suo battesimo, e con il quale è tuttora ricordato nella memoria liturgica (il 15 luglio del calendario giuliano, 28 luglio in quello gregoriano). Il complesso evento che sotto il suo regno era culminato nel 988 con quello che ormai gli storici chiamano il “Battesimo della Rus’”, l’ufficializzazione del culto cristiano nella Rus’ di Kiev, non si limitava a un’abile azione diplomatica, che la corte imperiale di Bisanzio aveva già sperimentato con successo con gli slavi dei Balcani: non creava solo l’alveo in cui trovava espressione unitaria un agglomerato politico sociale dai contorni ancora instabili, ma apriva una storia nuova, culturale, artistica, religiosa. Iniziava una nuova avventura spirituale. Veicolo era anzitutto la Scrittura – nel duplice senso dei libri sacri della fede cristiana, la Parola di Dio, e dell’alfabeto slavo ideato due secoli prima da due alti funzionari imperiali, Cirillo monaco e Metodio vescovo, per evangelizzare i popoli slavi ai confini dell’Impero.
La Rus’ è allora la terra degli estremi confini del mondo, e la sua conversione apre gli ultimi tempi. C’è un filo rosso che unisce la consapevolezza del cronista medievale di appartenere a un “popolo nuovo”, l’ultimo popolo accolto nell’ecumene cristiana, e il messianismo russo degli slavofili del xix secolo, l’escatologismo di Solov’ev e Dostoevskij. Ma il nesso tra i due mondi spirituali, tra l’antica Rus’ e l’immenso impero che nasce dalle riforme di Pietro il Grande, sembra smarrirsi nella quasi totale assenza di un pensiero filosofico e teologico originale prima dell’età moderna (e l’età moderna in Russia è l’era post-petrina). In tutto questo tempo la Santa Rus’ è rimasta in silenzio: contemporanea di “una Bisanzio in fermento e spesso chiassosa”, la “Rus’ quieta e silenziosa” tace, quasi “sprofondata in una qualche riflessione, in un suo segreto pensiero teologico”6. I grandi mistici (Sergio di Radonež, Nil Sorskij, Serafim di Sarov) non scrivono nulla, o pochissimo, se misurati col metro occidentale, o anche solo a confronto con la contemporanea letteratura mistico-ascetica bizantina. I loro scritti ripetono gli insegnamenti dei Padri, sembra non esserci margine per una rielaborazione creativa del dato della tradizione.
Anche i primi santi che conosce la Rus’ sono consegnati al silenzio: sono i principi Boris e Gleb, i figli di Vladimir il Santo, fatti assassinare dal fratello Svjatopolk, all’inizio delle interminabili lotte dinastiche che insanguineranno il principato di Kiev. La Chiesa russa li venera quali “martiri”, alla lettera strastoterpcy, “coloro che hanno sofferto la passione”, e a immagine dell’Agnello non hanno aperto la loro bocca, miti dinanzi ai loro tosatori (Is 53,7), hanno preferito essere sgozzati piuttosto di brandire le armi contro il fratello7. All’altra estremità della parabola storica della spiritualità russa, quando Dostoevskij vuole raffigurare il Cristo, lo colloca al centro di uno spazio di silenzio. Nei Fratelli Karamazov, dopo il lungo monologo del Grande Inquisitore, Gesù tace: egli è là, il suo silenzio dice il suo amore indicibile, e tutto il dramma della libertà dell’uomo. Non diversamente il protagonista de L’idiota (“Il principe Myškin è il Cristo!” confessa lo scrittore in una lettera), alla fine del romanzo ritorna nel silenzio da cui era emerso. Il silenzio segnala la prossimità del mistero. Ciò di cui non si può parlare, può solo essere contemplato, tacendo. Ma la contemplazione è possibile solo perché il contemplato si mostra. Il paradosso del Dio invisibile che prende carne e si mostra – si dona – all’uomo è il contenuto e la forma dell’icona.
Nell’icona della Trasfigurazione, nella cattedrale dell’Annunciazione del cremlino di Mosca, Rublev fa coincidere il punto di irradiazione della luce, la figura del Cristo, con il centro di una mandorla nera. La luce increata emana dall’oscurità impenetrabile del nascondimento divino. Ma in Cristo la tenebra irrapresentabile del Monte Sinai si è trasformata “nella luce del Monte Tabor, nella quale Mosè poté vedere finalmente il volto glorioso di Dio incarnato”8.
Cercare il volto del Dio-uomo nella spiritualità russa significa anzitutto ascoltare quello che non si fa sentire, vedere l’invisibile, scrutare le tenebre di ciò che è massimamente luminoso. Se l’apofatismo dei Padri è la forma essenziale della teologia mistica della chiesa d’oriente9, la storia della santità russa si è caricata del peso di questa conoscenza - “nescienza” di Dio (la “pia agnosia” di Dionigi): è il peso dello spogliamento di sé nell’ascesi, fino a caricarsi delle sofferenze e del peccato dell’altro, è la via che passa attraverso la conoscenza del “mistero della morte, della passione, del seppellimento e della Resurrezione” del Verbo (Massimo il Confessore). In questo cammino, che ha come mèta la divinizzazione (“Dio si è fatto uomo, affinché noi fossimo fatti Dio”10), i santi russi sono stati icone del Cristo, narrazione del Suo amore per l’uomo, come egli è stato esegesi dell’amore del Padre tra gli uomini (cf. Gv 1,18); hanno ritrovato nel loro essere creati “a immagine” del Figlio la piena somiglianza all’Archetipo divino; e come il Figlio è l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15) e l’irradiazione della gloria del Padre (Eb 1,3), essi hanno lasciato brillare nei loro cuori Dio che è Luce, “per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6).
L’essere “a immagine”, che offre un modo di pensare i rapporti intratrinitarii11, è anche il modo che descrive il compiersi della divinizzazione dell’uomo: il santo, l’asceta, è colui che riconquista la somiglianza divina, colui nel quale l’essere “a immagine” di Dio si fa trasparente, non più offuscato dal ripiegamento creaturale su di sé. La forma della contemplazione in oriente è l’unione con Dio: è questo il vertice della via negationis, che non viene integrata in un sistema di teologia positiva (anche se analogica) che parli di Dio. L’espressione di questa realtà spirituale è l’icona e la sua venerazione. La cristologia dei mistici russi è una teologia dell’icona12. Acquista allora un senso preciso l’osservazione di padre Florovsky, secondo il quale
La complessità, la profondità, l’autentica raffinatezza delle esperienze spirituali che l’antica Rus’ visse nei secoli silenziosi che precedettero l’epoca di Pietro, [siano] testimoniate, con evidenza materiale, dall’icona13.
Ma l’icona testimonia essenzialmente di due verità della fede: la realtà dell’Incarnazione, la piena assunzione dell’umanità da parte del Verbo senza che la sua qualità divina ne resti confusa o separata, e la realtà della Resurrezione, perché colui che è rappresentato è il Vivente che viene alla fine della storia.
[La] promessa del ritorno di “questo stesso Gesù, allo stesso modo” (At 1,11) … conferisce alla Chiesa la cura di preservare vivo il ricordo del suo santo Volto, dei tratti di colui che, da allora, intercede per noi presso il Padre suo e Padre nostro. Questa promessa la spinge a confessare la propria fede nell’avvento ultimo del Signore. Ebbene, l’icona è questa confessione. Essa è il termine medio, per così dire, tra l’Incarnazione e l’Escatologia, poiché essa confessa la verità di entrambe14.
Con il Battesimo La Rus’ non accolse da Bisanzio una fede cristiana senza forma: ma una fede già incarnata nella forma del cristianesimo d’Oriente, di quell’ortodossia che proprio nella venerazione delle sante immagini riconosceva il proprio tratto distintivo, il sigillo della confessione di fede in Cristo, il Verbo di Dio incarnato nella storia e Veniente alla fine del mondo. Il testo liturgico del Synodikon, dalla sua prima redazione nel ix secolo dopo il definitivo ristabilimento del culto delle icone (il Trionfo dell’ortodossia sull’iconoclasmo nell’843), proclama, nelle sue diverse redazioni e versioni (bulgara, russa, georgiana), il contenuto immutabile della fede ortodossa:
Noi vediamo in questa moneta del Cristo [= Sal 88,52] coloro che sono stati redenti dalla sua morte e che hanno creduto in lui grazie alla predicazione della Parola e alle icone. Poiché è per la parola e le icone che la grande opera dell’economia della salvezza si fa conoscere e si manifesta a coloro che il Signore ha liberato attraverso la sua croce, la sua passione e i suoi miracoli prima e dopo la croce; è dalla parola e dalle icone, come da un’unica fonte, che deriva l’imitazione delle sofferenze del Signore: esse si trasmisero innanzitutto agli apostoli, passarono da costoro ai martiri discendendo per il tramite di questi ultimi ai confessori e agli asceti15.
Chi volesse rintracciare nella tradizione spirituale russa i tratti del volto del Dio-uomo, che i santi russi hanno contemplato con particolare penetrazione, prima ancora che ai loro scritti (rari e spesso poco originali) dovrà così rivolgere lo sguardo alle sante immagini. Bezmolvie, alla lettera “assenza di parola”, “silenzio”, è il vocabolo slavo che traduce il termine tecnico della tradizione contemplativa del monachesimo orientale: hesychia, che in greco significa quiete, pace dell’anima, assenza di passioni nel cuore purificato che contempla da solo a solo la luce intelligibile della Divinità. L’iconografo rivela la profondità di questa contemplazione silenziosa. Il luogo dell’ermeneutica dell’icona – dove l’immagine è massimamente parlante – è la liturgia: l’iconostasi, innalzata sul “limite posto tra il santuario e la navata, fra l’eterno e il temporale”16, è il velo aperto che introduce alla contemplazione del mistero della vita divina che si comunica all’uomo, come mirabilmente esprimono le parole della preghiera eucaristica (Liturgia di san Giovanni Crisostomo):
Tu sei il Dio ineffabile, inconcepibile, invisibile, incomprensibile, esistente da sempre, sempre lo stesso, Tu e tuo Figlio e il tuo Santo Spirito. Tu ci hai condotto all’esistenza dal non essere e, dopo che noi fummo caduti, ci hai rialzato e non tralasci di fare ogni cose fino a che ci avrai ricondotti in Cielo e fatto dono del tuo regno che viene17.
È la visione delle cose ultime, l’anticipazione dell’éskaton nel tempo della vita fatto di memoria e attesa. I cinque ordini sovrapposti dell’iconostasi narrano, dall’alto, l’economia della salvezza, la sua preparazione nell’Antico (le icone dei patriarchi e dei profeti) e il compimento nel Nuovo Testamento (il ciclo delle feste di Cristo), fino a culminare, al di sopra delle porte regali, nell’icona tripartita che rappresenta il Cristo Salvatore tra le potenze (Spas v silach) che viene nella gloria, con la Madre di Dio e il Precursore in preghiera davanti a lui. Il nome dato a questo gruppo indivisibile – e, per estensione, a tutto l’ordine dei santi disposti a destra e a sinistra – è Deisis, “preghiera”:
Essa mostra il risultato dell’incarnazione e della Pentecoste, la pienezza della Chiesa neotestamentaria, il compimento di quello che mostrano i tre ranghi superiori dell’iconostasi, essa ne è dunque la parte centrale ed essenziale. Il tema centrale di questo rango è la preghiera della Chiesa per il mondo. È l’aspetto escatologico della Chiesa.
Della liturgia si nutre e nella liturgia si esprime la profondità della spiritualità e della teologia ortodosse: “Se sei teologo pregherai veramente e se preghi veramente tu sei teologo”18. Questa è anche la mistica di cui vivono la spiritualità e la teologia russe.
Si è molto parlato dell’esicasmo russo (secc. xiv-xv), e del rapporto tra esicasmo, iconografia e letteratura19. La quiete (hesychía / bezmolvie) degli esicasti russi è un silenzio carico di attesa, dove le visioni sono rare (san Sergio e Serafino di Sarov rappresentano un’eccezione!), e la stupefacente esultanza di luce della mistica bizantina sembra spegnersi nel dono delle lacrime di monaci che conoscono il loro peccato, che intercedono invocando misericordia per ogni creatura (Isacco il Siro è uno degli autori più letti nel periodo della rinascita spirituale del xiv-xv secolo, dopo la fine del giogo tataro20).
Se “via migliore per penetrare la spiritualità ortodossa è di entrarvi attraverso il monachesimo”21, questo è particolarmente vero per la spiritualità russa. Molti iconografi erano essi stessi monaci, e quasi sempre un rinnovamento della vita monastica è stato accompagnato da una nuova fioritura dell’arte iconografica: l’epoca di san Sergio è anche l’epoca di Teofane il Greco, di Andrej Rublev, di Daniil il Nero; l’epoca di Nil Sorskij (fine xv -inizii xvi sec.) coincide con la maturità della nuova iconografia di Dionisij. Il monachesimo e l’arte dell’icona dicono insieme una più acuta percezione delle cose ultime; i monaci, dopo l’epoca dei martiri, rendono testimonianza al Signore che deve venire nella gloria, in quello che è stato definito il loro peculiare “ministero del massimalismo escatologico”22.
Il silenzio dell’antica Rus’ testimonia il ritorno del Veniente.
Adalberto Mainardi
monaco di Bose
1 Il saggio, costituisce la prima parte di un lavoro più ampio sulla spiritualità dei santi russi in corso d'opera, che comprenderà una seconda parte dedicata a San Sergio e Rublev, e una terza a Nil Sorskij.
2 2 Cor 9,15.
3 Žitie prepodobnago i bogonosnago otca nasego, igumena Sergia Čjudotvorca, testo e commento a cura di D. M. Bulanin, trad. russa di D. M. Bulanin e M. F. Antonova, in Pamjatniki literatury drevnej Rusi xiv-seredina xv veka, Moskva 1981, p. 256.
4 Sergio è celebrato quale “guida di abati, capo di monaci, costruttore di monasteri, lode degli asceti, sostegno dei solitarî, ornamento dei taciturni, corona dei presbiteri ... vero maestro, guida sicura, saggio governante, ... medico premuroso, ardente intercessore, santo riformatore” (ibid. p. 410).
5 Sermone sulla legge e la grazia (Slovo o zakone i blagodati), pubblicato da A. V. Gorskij: Pamjatniki duchovnoj literatury vremen velikago knjazja Jaroslava I, in Pribavlenija k tvorenijam svjatich otcov, parte II, Moskva 1844.
6 G. Florovskij, Puti Russkogo Bogoslovija, Paris 1937 (tr. it. Vie della teologia russa, Marietti, Genova 1987, p. 3).
7 Žitija sv. Borisa i Gleba i služby im, ed. D. I. Abramovič, Peterburg 1916; tr. it. in T. Spidlik (a cura di), I grandi mistici russi, Città Nuova, Roma 1977, pp. 19-26.
8 V. Lossky, A l’image et à la ressemblance de Dieu, Paris 1967, p. 37.
9 V. Lossky, Théologie mystique de l’Eglise d’Orient, Paris, Aubier, 1944.
10 Atanasio, De Incarnatione 54.
11 Cf. S. Boulgakov, L’icône et sa vénération. Aperçu dogmatique, L’Age d’Homme, Lausanne 1996.
12 Cf. K. Chr. Felmy, Orthodoxe Theologie. Eine Einführung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1990, pp. 65-82 (“Christologie als Ikonentheologie”): “Nonostante le controversie sull’ammissibilità delle icone, soprattutto le icone di Cristo, fosse stata fortemente caratterizzata dalla disputa dogmatica, le tradizionali trattazione dogmatiche ortodosse non dedicano spazio al problema delle icone e della loro venerazione. Passano così sotto silenzio un fenomeno che … come nessun altro è rivelatore della Chiesa ortodossa” (p. 66).
13 G. Florovskij, Puti Russkogo Bogoslovija, (tr. it. cit., p. 3).
14 Chr. Schönborn, L’icône du Christ. Fondements théologiques, Cerf, Paris 1986, p. 139.
15 Ed. J. Gouillard.
16 L. Ouspensky, Théologie de l’icone dans l’Eglise orthodoxe, Cerf, Paris 1980 (prima edizione in 2 voll. ivi 1960, Editions de l’exarchat patriarcal russe en Europe occidentale), p. 256.
17 E. Mercenier-F. Paris, La prière des églises de rite byzantin I, L’office divin, la liturgie, les sacrements, Monastère de Chevetogne 1937, p. 251.
18 È l’adagio di Evagrio, La preghiera 60, ripetuto innumerevoli volte nella tradizione patristica (per esempio Gregorio di Nissa, PG 44, 1124 B).
19 Cf.L. Ouspensky, Théologie de l’icone, pp. 225-257. Si vedano però le riserve espresse da Ja. S. Lur’e e G. Podskalsky in Nil Sorskij e l’esicasmo, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Magnano, 1995, pp. 109-110 e 213-214 sul nesso tra esicasmo e letteratura antico-russa; per quanto riguarda la “letteratura polemica” relativa alle controversie palamite, va osservato che “nella Rus’ di fatto non pervenne, ma gli scritti che ne erano alla base, e che i monaci leggevano “in cella”, penetrarono in gran quantità”: G. M. Prochorov, Kelejnaja isichastskaja literatura (Ioann Lestvičnik, Avva Dorofej, Isaak Sirin, Simeon Novyj Bogoslov, Grigorij Sinait) v biblioteke Troice-Sergievoj lavry s xiv po xvii v., in TODRL 28 (1974), p. 318.
20 Cf. Ibid., pp. 317-324. – È significativo che la rinascita del monachesimo russo nei secc. xviii-xix coincise con una nuova fortuna degli scritti di Isacco di Ninive. Nel 1787 Paisij Veličkovskij completò la sua traduzione in slavo ecclesiastico dell’Isacco greco, stampata a Optina nel 1854; in questa versione (o nella contemporanea versione russa dell’accademia) lo conobbe Dostoevskij.
21 P. Evdokimov, L’orthodoxie, Neuchâtel 1965, p. 20.
22 Ibid.