Quando, tre anni fa, mi dissero che sarei dovuta andare a lavorare tre mesi a Donetsk, ammetto che non la conoscevo. Non avevo mai sentito nominare questa città. Io, che già ai tempi studiavo la lingua russa. Quando scoprii che era la seconda città più grande dell’Ucraina, mi imbarazzai per la mia ignoranza. Al confine con la Russia, la zona del Donbass è la più ricca di metalli e dunque più industrializzata del paese. Anticamente si chiamava Juzovka (in onore del fondatore, John Hughes, che a partire dal 1869 cominciò a costruirvi una fabbrica metallurgica, dando un nuovo assetto alla città), poi si chiamò Stalino, infine Donetsk dal fiume Donetz, che però non passa per il territorio (il fiume che la attraversa è il Kalmius).

Donetsk è una città grigia di industrie, di asfalto e di polvere delle miniere. Famose sono le sue colline di scavi. La sua canzone simbolo è “Dormono le nere colline” Спят курганы темные, dove si parla delle sue nere colline e delle sue bianche nebbie, e di un giovane minatore nella steppa di Donestk, salutato dai canti delle ragazze, i cui giorni di lavoro caldo sono come battaglie.

Donetsk, d’inverno, è triste e tetra. I casermoni in stile sovietico (centri sportivi, fieristici) sembrano abbandonati. I cortili delle case hanno le panchine ricoperte di neve. Gli autobus sono scassati, come le macchine sovietiche piene di stalattiti. La sera le strade sono vuote. Ricordo che sotto casa mia c’era una caffetteria, il Kofe Vip- nome assai poco azzeccato, visto che era sempre deserta. Fuori troneggiava la scritta “cercasi cameriera”. Spero fosse una battuta. Il proprietario aveva un’aria sinistra e un’occhio strabico, mi metteva paura.

L’unica cosa che troneggia, oltre alla statua di Lenin nella piazza principale, è lo stadio di recente costruzione, il Donbass Arena, che ospita la squadra locale, il famoso Shakthar (шахта, shakhta, in russo, vuol dire miniera). Traccia d’occidente e nuova miniera di soldi, lo stadio è molto bello: esternamente, con la sua struttura a ciambella allungata, che di notte s’accende di blu elettrico, e all’interno, con i suoi uffici dai muri arancioni, che dopo un po’ fanno andare insieme la vista. La città è in mano agli oligarchi, che arrivano allo stadio con le guardie del corpo e le macchine dai vetri oscurati, a fare ginnastica in palestra.

Appena fuori dal centro cominciano le industrie, la campagna grigia, gli edifici di pietra che sembrano sprofondare nel suolo. In primavera la città si risveglia, e qualcosa cambia. La gente comincia a camminare per la Puskina, al parco Sherbakova si fanno pic nic e ci si sdraia nell’erba. è lì che Donetsk rinasce, si scuote il ghiaccio dalle spalle e si fa ricoprire di fiori tiepidi. D’estate l’afa si impossessa dell’asfalto, lo fa brillare e sciogliere, e in campagna gli stagni bollenti ricordano le paludi.
Donestk è così: non fa sconti. Ruvida, cruda, materialista. Incastrata tra lusso e miseria, tra gente per strada che scava e costruisce, minatori dagli occhi azzurri come pietre e la pelle annerita, ragazze splendide su tacchi vertiginosi che la sera frequentano il Pierrot, tipico locale da acchiappo, o ballano al Virus, discoteca anni 90 dai divani bianchi, con le cubiste con pesciolini che nuotano dentro le zeppe, spettacoli di nani e travestiti, mafiosi ai tavoli con la glacette di Crystal.

Donetsk all’inizio ti lascia interdetto, ti prende a schiaffi. Si mostra per quello che è e ti fa spallucce. Se non ti va bene, puoi andare altrove. Dopo un po’, succede qualcosa. Ti fa scattare qualcosa dentro. Comincia ad accarezzarti. Noti quanto le persone del posto siano ospitali, entusiaste di conoscere persone europee. Inizia a divenirti familiare lo stradone principale, l’Artema, che percorri a piedi tutte le mattine. Cominci a conoscere tutti i soliti tassisti, della compagnia Mosaika, che per 2 euro ti portano da ogni parte della città. C’è quello con i sedili di peluche, quello con la bandana americana da rocker, quello che non smette mai di parlare. Scopri certi posti cui ti affezioni, come la Yuzovskaya Pivovarnia, dove si mangia bene e ci sono i tavoli all’aperto. D’estate ti puoi rilassare lì a bere una birra, e se sei fortunato, ti può capitare di vedere qualche stella sopra i tendoni. Al ristorante Svinià mangi carne con le mani da grossi vassoi, e le procaci cameriere ti intrattengono durante la cena con uno spettacolo non troppo raffinato: ballano con un maiale, che vive in una piccola stalla vicino al bagno.

Un posto come non ne ho visti mai nella vita è il Bikers Bar. Bar da motociclisti, con musica rock, stemmi della Harley Davidson e questo arguto motto appeso al muro: большой живот не от пива а для пива (grossa pancia non per colpa della birra, ma per la birra), è un posto che non ti delude mai. Ha una chicca assoluta al piano di sotto: un tiro a segno con un vero e proprio teatrino di legno di pupazzi nazisti. Per pochi copechi puoi attivare i fucili a palline e sparare ai nazisti. Quando colpisci un ufficiale delle SS, quello cade oppure fa movimenti pelvici sopra una sventurata signorina. Strepitoso.
Il gioco può farsi ancora più duro. Quando finisci in un sotterraneo con un energumeno dai capelli bianchi a spazzola, di nome Sergey, che ti porge il menù delle armi, dove puoi scegliere se sparare ai bersagli con un vero kalashnikov o un M16, capisci che Donetsk non è un posto qualunque. Ti senti un perfetto idiota ad averne ignorato l’esistenza per tutto quel tempo. Se la mattina a lavoro ancora ti sorprendi perché le tue dita sono sporche di polvere da sparo, o ti ritrovi un bossolo in borsetta e ti fermano all’aeroporto, Donetsk non ti è ancora entrata dentro. Quando lo fa, non la puoi più dimenticare. Allora ti sembra splendido anche un centro commerciale qualunque, il Donestk City, dove puoi fare la spesa alle tre del mattino. Allora il proprietario del Kofe Vip in via Rossini, quello strabico che sembrava ti volesse sgozzare, fa una foto con te e ti racconta di suo fratello, e sa già che prenderai il cappuccino senza zucchero. E’ allora, che capisci che Donetsk, nel bene e nel male, fa parte di te.

Adesso Donetsk è sulla bocca di tutti. Inutile dire che sarebbe stato meglio l’anonimato, che finire sui giornali per quello che sta accadendo. I miei amici dicono che non sanno in cosa sperare: se annettersi alla Russia, se restare in Ucraina e legarsi all’Europa, se divenire una repubblica indipendente. Non sanno se morire cotti in forno, alla griglia o in padella. Dicono che l’incubo peggiore sarebbe che nascesse la repubblica indipendente del Donbass, mai esistita, nuova sulle carte geografiche. Un posto dimenticato ancor prima di essere noto, un posto dall’identità costruita a tavolino, frutto dell’odio tra fratelli. Una “nazione” per cui bisognerà farsi un passaporto e chiedere un Visto per entrare? Una terra che non appartiene più a niente, la cui storia verrebbe azzerata.

Qualunque cosa succeda, per me Donestk sarà sempre quella Donetsk, quel posto pieno di personalità, quella tagliente carezza che mi ha fatto crescere e ha cambiato la mia vita. Spero tanto, un giorno, di poter rivedere i “voennije”, i veterani della guerra, assieme ad una folla festosa, riunirsi fuori dal Donbass arena, tra i fiori bianchi e gialli, con il loro stemma appuntato sulla giacca, a festeggiare il 9 maggio con la stessa spensieratezza con cui lo facevano gli anni passati. Senza pensieri, in un’allegra quiete, ma non quella prima della tempesta.

 

Valentina Moretti(*)

 


* Blogger ("NonSoloMatrioske"), scrittrice, traduttrice dal russo, giornalista. Collabora con la rivista online "Moscowita". L'articolo è tratto dal blog per sua gentile concessione.