Perché
una nuova versione dell’Onegin, a trent’anni da quella in versi di Giovanni
Giudici, a venti da quella in prosa di Eridano Bazzarelli? Potrei rispondere
semplicemente perché a questo mondo non si è mai contenti di nulla, e forse
sarebbe la ragione più valida, seguita dall’emulazione, dalla vanità del non
così ma cosà, dal piacere di comunicare agli altri le emozioni che un
capolavoro del genere (considerato la gemma più preziosa delle lettere russe)
suscitò in me fin dalla prima, stentatissima
– da autodidatta della lingua – decifrazione dell’originale. In
particolare rimasi affascinato dall’acqua,
di questa gemma: dalla limpidezza, la trasparenza, la levità con cui il
racconto si snoda, di verso in verso, di capitolo in capitolo, senza un attimo
di cedimento, ingabbiato com’è nella ferrea struttura della strofa – una
specie di sonetto all’inglese, a rime obbligate abab
ccdd effe gg – un miracolo formale insomma, che non basta certo, però, a
spiegare l’emozione che la lettura, e propriamente il suono, il ritmo, la
cadenza del verso comunica, e che nessuna versione in prosa potrà mai rendere:
perché, come esprimere – se non col verso – la concisione, la fermezza,
l’inappellabilità da sentenza di Cassazione delle due righe con cui Tatiana
liquida Onegin?
No
jà drugòmu òtdanà;
Ja
bùdu vèk emù vernà.
Ecco
già una buona ragione per cui propongo questo mio lavoro al lettore italiano;
il quale da una scorrevole e nitida prosa è messo sì a conoscenza di quello
che Tatiana dice:
Ma
sono stata data a un altro,
E
gli sarò per sempre fedele.
ma non di come
lo dice. Il come può dirlo solo
il testo originale, o una traduzione in versi. Ed è il nòcciolo, questo (del come e non del cosa), non
solo d’ogni possibile traduzione dell’Onegin, ma del romanzo in sé:
riguarda cioè lo stesso lettore russo, perché, siamo poi così sicuri che al
Poeta interessi raccontare una storia d’amore, più o meno infelice? Pare
proprio di no: non c’è romanzo, penso, in tutta la letteratura mondiale,
scritto in modo così dispersivo, svagato, zingaresco, in cui ogni momento è
buono per partire per la tangente, per fare una digressione filosofica o, più
spesso, due chiacchiere con l’amico lettore sui piedini delle donne, sul
pessimo stato delle strade russe, o sulla nevicata del 3 gennaio scorso. Il
tutto trasformato in oro puro, quanto a sensazioni, a impressioni (visive,
uditive, olfattive) che si fissano per sempre nella memoria – come, per
esempio, nella strofa 1, XXXV: la città che si sveglia al rullo del tamburo, il
fumo che sale dai camini in colonne blu, il fornaio tedesco che s’affaccia,
puntuale, col suo cappellino di carta, allo sportello della bottega, la neve
mattutina che scricchiola sotto il passo sollecito della lattaia finnica.
L’amore Tatiana-Onegin qui importa quanto l’amore divino in un presepe
napoletano.
E
dunque: il suono, il ritmo, la metrica. Ma quale verso abbiamo in italiano da
contrapporre alla tetrapodia giambica russa? Non certo l’endecasillabo
(utilizzato dal Lo Gatto nella sua pur eccellente traduzione): adattissimo a
trasporre la pentapodia giambica – quella dei sonetti scespiriani, tanto per
intenderci – conta però dieci e passa sillabe, le cui cinque battute
rallentano, appesantiscono il passo spedito del metro russo:
Vdovy
Klikò ilì Moèta
blagòslovènnojé
vinò
“Il
benedetto vino della vedova Cliquot o di Moet”. Come affidare questo
distico a due endecasillabi? Ne verrebbe fuori un articolo di Veronelli. E men
che mai lo affideremo al decasillabo, verso svelto e musicalissimo,
Non
più andrai farfallone amoroso.
Giovinette
che fate all’amore.
Madamina
il catalogo è questo
ma, ahimé, di solo
tre battute – per di più quasi sempre anapestiche; idem, al novenario, che
pure equivarrebbe per quantità di sillabe alla tetrapodia: ma anche il
novenario ha solo tre battute: zoppica, ogni tre passi si ferma a respirare, il
nostro verso fin-de-siècle:
Errai
nell’oblio della valle
tra
ciuffi di stipe fiorite
tra
quercie rigonfie di galle;
Non rimane che
l’ottonario, l’unico metro italiano che arriva a fine rigo in quattro agili
balzi. Usatissimo in passato - anche da molti contemporanei del Nostro -
Bell’Italia,
amate sponde.
O
mia musa! O mia compagna.
Sotto i pioppi della Dora.
parrebbe oggi più adatto a ‘veicolare’ un qualche Pinocchio che non quella summa di scettico vitalismo, appassionato realismo e tragico fatalismo che è l’Onegin (“te lo pubblico sul Corriere dei Piccoli”, ebbe a dirmi difatti Enzo Siciliano, scherzando); in più rende una sillaba al metro russo: sette/otto
contro le otto/nove della tetrapodia, per cui è stato e sarà spesso arduo
mantenere la struttura strofica, restare cioè nei 14 versi del sonetto. Ma
tant’è: decidi tu lettore, del risultato.
Fiornando
Gabbrielli, dicembre 2006.