Pietro A. Zveteremich
Su "La coda" di Vladimir Sorokin
Eccoci
di nuovo davanti a uno di quei testi russi che, prima di giungere per vie
fortunose in Occidente, s'era già fatto strada, e dunque segnalato, in Urss.Come
i libri di Erofeev, Kormer, Aleškovskij,
Bokov, Vojnovič
e decine d'altri, anch'esso, seppure escluso dalle stampe, ha avuto e ha i
suoi lettori sovietici, i quali per primi ne hanno decretato i meriti e il
successo. Il loro riconoscimento vale più di qualsiasi premio letterario sia
sovietico, sia occidentale, per la semplice ma decisiva circostanza che per essi
leggere è un atto di volontà e di coraggio. Queste opere non si acquistano
nelle librerie, ma si ottengono alla macchia, attraverso i canali del samizdat
(ormai celebre in tutto il mondo); e questo vuol dire testi dattilografati,
spesso in copie di cattiva qualità (perché in Urss non si può disporre di
fotocopiatrici e tanto meno di più sofisticati sistemi di riproduzione
elettronica), spesso pagate a caro prezzo, avute per amicizia e anche con
l'impegno di farne altre copie. Ma, soprattutto, il fatto stesso di leggere e di
possedere testi del samizdat costituisce reato, come il possesso di
droga, ed è perseguibile - e perseguito - penalmente. In poche parole per
leggere questo Sorokin e la sua Coda si può finir dentro, come per la
Bibbia o un testo politico considerato dalle autorità come «anti-sovietico».
Si
capisce così che resistere alla selezione del samizdat, dove i giudici
rischiano in proprio, è già un bel successo e spesso anche una prova di
autenticità e di qualità. Non per niente dai canali del samizdat sono
usciti, o comunque per essi sono passati, tutti gli autori della letteratura
russa libera che ormai da tempo continua la grande tradizione russa e
rappresenta il paese più di quella «legale».
Se
gli specialisti hanno discusso - e discutono – di «due letterature russe»:
quella «sovietica» e quella «emigrata» o al bando in patria, mentre in realtà
ci sembra che esista un'unica letteratura i cui autori e libri vivono in
situazioni diverse ed esprimono messaggi diversi e antitetici, ciò significa
che la cosiddetta «letteratura russa 2» non è meno importante della «letteratura
russa 1». A nostro avviso lo è di più, sia per ciò che oggi offre al lettore
e al critico, sia perché essa è l'erede di tutta la tradizione letteraria
russa del '900, che cominciò a essere prima «potata» e poi stroncata dal
regime sovietico. La maggior parte dei grandi poeti e prosatori russi della
contemporaneità (dall'Achmatova a Mandelštam,
dalla Cvetaeva a Pasternak, da Zamjatin a Bulgakov, da Platonov a Babel' - e
valgano questi pochi per i molti) sono stati - e ancora non integralmente - «riammessi»
alla circolazione culturale soltanto dopo la metà del secolo da uno Stato che
si arroga il «diritto d'espulsione dalla poesia». Dai fondachi del vituperato
regime zarista non s'è tirato fuori quasi nulla, perché nonostante una censura
pesante la letteratura aveva un proprio spazio, ma dai fondachi del progressivo
regime sovietico ce n'è tanta di roba da tirar fuori. Anzi, come
vediamo, si continua con molto zelo a nascondere e a sigillare. Per un
po' di Gumilëv
che esce, tutto Brodskij'[i]
è negato al lettore russo, come lo sono Sinjavskij, Solženicyn,
Vojnovič, Erofeev, ecc., in
cambio della concessione d'un racconto in più di Bulgakov o d'un episodico
Nabokov.
La
coda di Sorokin è un libro in più che si aggiunge alla
sterminata lista degli odiosa per il regime. Come s'è detto, l'ha
raccolto e premiato il samizdat; sulle sue ali è volato in Occidente.
Qui è stato stampato a Parigi dalle edizioni Syntaxis e illustrato con la bella
grafica di A. e M. Gran; poi subito tradotto in francese e in altre lingue.
Eppure altri libri importanti della nuova narrativa russa hanno dovuto aspettare
anni, e ve ne sono che aspettano ancora, come quelli di Iskander, di Jur'enen,
di Popov, Sokolov, Vachtin, ecc. ecc. C'è molta feconda invenzione nelle
lettere russe d'oggi. E dunque come mai Vladimir Sorokin, un autore sui
trent'anni che vive a Mosca ed era finora sconosciuto, ha suscitato una così
subitanea curiosità? Si deve pensare che ciò si debba anzi tutto al fatto che
il suo è un libro curioso o perlomeno insolito: tutte le duecento pagine del
suo racconto sono unicamente dialogo; un dialogo, inoltre, quasi sempre di
battute d'una parola, di monosillabi, interiezioni, sospiri. Non c'è una frase,
non c'è una riga di descrizione.
È
facile obiettare: esiste un precedente classico: già la Ivy Compton-Burnett
scriveva così. Invece no, perché, a parte il fatto che per la letteratura
russa questa maniera sarebbe già una novità, Sorokin va oltre la scrittrice
inglese. I suoi dialoghi erano pur sempre introdotti dall'autore commentati,
laddove Sorokin li deposita intatti sulla pagina, senza alcun proprio
intervento esterno. Prendiamo il famoso Madre e figlio e leggiamo: «...disse
Miranda Hume, senza sollevare...»; «…Due ragazzi... si scambiarono...»; «...La
cameriera fece entrare...»; «...disse Miranda, non senza simpatia ...»[ii]
Sempre, per tutto il libro, non solo il dialogo, pur restando largamente predominante,
è introdotto e assistito dall'autore, ma egli dà pure ragguagli sui
personaggi, il loro modo di vestire, i comportamenti, nonché sull'ambiente.
Nulla
del genere ne La coda. Dal principio alla fine il racconto si snoda
semplicemente attraverso le nude battute del dialogo; a esse si affida per la
propria strutturazione: per il disegno dei personaggi, delle situazioni, degli
ambienti, dell'intera vicenda. Prendiamo il libro e leggiamo: «Compagno, chi
è l'ultimo?» / «Di certo io, ma dopo di me...» / «E non sapete quanti ne
danno a testa?» / «E voi ieri stavate in coda?» / «Ci stavo». / «Per
molto?» / «Mah, non troppo...» / «Non sono molto stropicciati?» / «In
principio non eran male, ma alla fine d'ogni genere...». Così sino in fondo.
Come un estraneo, capitato per caso in un gruppo di persone - un crocchio in
strada, uno scompartimento in treno - un po' alla volta, dai brandelli di
conversazione, dalle varie parole, allusioni e altre cose, ricostruisce la
situazione, apprende di essa dettagli e viene a conoscere storie individuali e
via dicendo, così il lettore de La
coda entra nel racconto e ci crede. L'autore non gli ha mai porto una mano
d'aiuto. Lo ha immerso nei propri personaggi: e che se la vedesse lui, il lettore,
a cavarsela, a orientarsi, a vivere anche lui là dentro.
Questo
è il primo risultato che Sorokin consegue: di tuffare il suo lettore in una
realtà sgradevole e assurda, e di fargliela assaporare sino in fondo anche se
egli prima era nolente. Ed é una bella conquista sadica: del vero sadismo,
che rende la vittima un complice
pienamente partecipe. Ma non . si pensi che questo accada soltanto al lettore
russo in quanto è della partita: fa parte di quel mondo sovietico, dì quella
società, ritrova qui quanto gli è familiare nella vita quotidiana, e gli può
accadere di trovarsi in una coda del genere. No, Sorokin perviene a rendere la
sua coda credibile, e dunque vera, anche per il lettore straniero; e a
trascinarvelo dentro.
Come
hanno notato due dei più attenti critici d'emigrazione, Pëtr-Vajl' e Aleksandr Genis, «...V. Sorokin ha
scritto una satira globale della società sovietica. In una certa misura quest'è
vero. Ma solamente nella misura in cui è orrenda la comunità umana in genere.
Qualsiasi folla è repugnante e mostruosa. Qualsiasi: russa, americana, zulù,
di dottori in scienze. Se La coda è una satira, essa lo è dell'umanità. Allo
stesso modo in cui incute spavento l'indifferenza d'una fotografia. Tuttavia il
libro di Sorokin non è un calco meccanico della realtà. La creatività
dell'autore sta nel rapporto che egli ha col suo oggetto»[iii].
E
si tratta d'un rapporto sapiente: non solo molto dosato, ; ma studiato nello
stesso tessuto stilistico e fin dentro l'ordito tecnicamente linguistico. A
prima vista, l'interminabile sequela di battute che dà vita al racconto de La
coda può sembrare il materiale ottenuto con un registratore, ma il
lettore accorto si accorgerà ben presto che l'intervento di Sorokin non
consiste soltanto in un'operazione di montaggio, in ogni caso necessaria, bensì
in un'operazione ancor più pertinente, selettiva e creativa sul linguaggio. A
differenza di quell'intervento esterno a cui s'è accennato per la
Compton-Burnett, si
tratta
d'un intervento interno al dialogo dei personaggi per organizzarlo in racconto,
rinunciando a qualsiasi altro supporto. Tanto che, come ancora scrivono i
succitati critici, «Le repliche ne La coda sono un tessuto artistico
fabbricato da un maestro sottile. Si capisce che V. Sorokin non ha scritto il
libro per una qualche idea ma per l'indescrivibile gioia di riprodurre delle
parole... In sostanza, La coda é prosa fisiologica chiamata a
dimostrare le possibilità della parlata russa… Certo, non è una
registrazione, ma un'orchestrazione meditata con cura. Un inno alla
discorsività umana. L'affermazione della sua assoluta autosufficienza»[iv].
C'è
tuttavia da aggiungere che se La coda si presenta come la satira della folla
della strada, la prosa in cui tale satira si attua appare essa stessa come la
satira del linguaggio di tale folla: del russo oggi parlato dalla strada
moscovita. E questo merita un accenno. C'è un passo de Il Dottor Živago che accenna
all'imbarbarimento della lingua russa e si collega pertinentemente a La coda:
Gordon e Dudorov, gli amici sopravvissuti del dottore, subito dopo la guerra,
parlano d'una ragazza che si chiama Tan'ka Bezòčeredeva,
come a dire «Tanja Fuoridellacoda». Nota Gordon: «Che barbaro, orrendo nome
è Tan'ka Bezòčeredeva.
Non è un cognome, ma una parola inventata, deformata. Che ne pensi?» E
Dudorov gli risponde: «Lo spiega così anche lei. È figlia di ignoti, è stata
una bambina randagia. Forse, nel cuore della Russia, in qualche punto dove la
lingua è ancora pura e intatta, l'hanno chiamata bezotčija, nel senso che non
aveva un padre. La strada, cui questo soprannome, riusciva incomprensibile, la
strada che coglie tutto a orecchio e travisa tutto, l'avrà trasformato alla sua
maniera, assimilandolo al suo rozzo gergo di questi tempi»[v].
Pasternak
spezzava qui una lancia per l'onore della lingua russa che con tutta la sua
opera egli aveva difeso, così come altri avevano fatto e altri continuarono a
fare, tra cui Paustovskij e Solženicyn.
Ma il russo della strada, della «coda», della grande rivoluzione antropologica
indotta dal regime, il russo del frasario politico-burocratico-sovietico ha
proceduto inarrestabile e apparentemente invincibile. Esso ha occupato sempre
nuove posizioni e si può dire che ormai lo si insegni nei corsi di lingua russa
in tutto il mondo grazie alla conquistata predominanza dei manuali e dei maestri
«made in Urss». Quella pronuncia moscovita che già Puskin additava quale
cattivo esempio, signoreggia incontrastata e perfino incoraggiata:
dall'esorbitante mutazione della «o» in «a» alla perdita di consonanti e
all'apocope dei nomi.
Fenomeni
degenerativi del genere si osservano in tutti i paesi, basti pensare
all'italiano la cui pronuncia, per esempio, è omologata a quella
pseudo-romanesca. È inutile dilungarsi qui su questa situazione generalizzata,
le cui origini stanno in quella rebelión de las masas che Ortega y
Gasset ci delineò già mezzo secolo fa. Per la lingua russa le conseguenze sono
state più vulneranti, perché ha agito anche una volontà politica
centralizzata capace della massima capillarità.
Come
già avevano fatto al suo nascere scrittori quali Zamjatin, Zoščenko,
Platonov, il neo-russo-sovietico-moscovita oggi è affrontato all'interno da
Sorokin, come da Erofeev, Sinjavskij, Popov e altri, che lo smascherano e dileggiano,
facendone il materiale con cui costruire la satira. Essa ne guadagna in quanto
sono i suoi stessi personaggi a rivelarsi: parlando, mettono in mostra anche i
parametri della propria cultura massificata e banalizzata. In questo linguaggio,
che Sorokin adopera magistralmente, anche il turpiloquio, le maleparole
diventano significanti beanti, vuoti: diventano interiezione, perfino sigla. Bljad'
(puttana) vive ormai come l'interiezione bljà, eb tvojù... (fotti
tua...) si riduce a minima sigla: ept. È il trionfo del linguaggio
meccanizzato, colto nella sua genesi da Zamjatin col romanzo Noialtri. Ma
la lingua si vendica: perduta l'autentica originaria espressività, le parole
si rivoltano, manifestando, con la stessa sottrazione del significato al
significante, di cui sono state oggetto, lo svuotamento di significati di cui è
vittima il parlante, ossia la strada, la coda, la folla.
Questa
coda di cui ci narra Sorokin non è una coda speciale, ma una coda come tutte
le normali code che si formano endemicamente nelle città sovietiche e sono
espressione della patologia cronica dell'Urss. Di ciò sono perfettamente
consapevoli coloro che fanno la coda, i quali a un certo punto del libro
dicono che «è il sistema». Un noto giornalista italiano, corrispondente da
Mosca e non certo ostile, scriveva di recente: «I russi sanno per lunga
abitudine che è imprudente pensare di poter comprare le cose che servono solo
quando servono, vale a dire nella stagione adatta. Rischiano di non trovarle. E
così comprano quel che può servire quando c'è. Conosco una giovane donna
che ha trovato del tutto naturale comprare per suo figlio, che ha un anno, un
pullover che non avrebbe potuto indossare prima d'aver raggiunto i quattro
anni. "Chi può sapere se lo troverò fra tre anni?" è stata la sua
tranquilla spiegazione. È tutto, o quasi tutto così. E la gente non protesta,
si adatta»[vi].
Dunque
non è una coda di affamati; nemmeno di bisognosi nel senso lato della parola.
Generalmente ci si sfama e ci si veste, ma non con ciò che si vorrebbe nel dato
momento. E così le «voci» del dialogo di Sorokin sì scambiano domande e
risposte su dove si trovino il burro o le patate o qualsiasi altra cosa: non
si sa mai perché si farà una coda. Questa condizione generalizzata è
l'essenza stessa del racconto, il suo mistero, la scoperta sulla quale esso si
regge. Fino in fondo non sì saprà mai che cosa realmente riusciranno a
comprare quelli che fanno la coda. C'è chi se ne va, abbandonando l'impresa;
chi rimane e insiste.
Questa
coda comincia di giorno, continua di notte e per un'altra giornata fino a notte,
interrotta da un temporale. Ma ricomincerà non appena possibile. La coda c'è
sempre: oggi in un rione, domani in un altro, ha una vita propria e ne riempie
anche il rione in cui serpenteggia, invadendo vie, piazze, cortili;
sovrapponendosi all'esistenza degli abitanti ed entrando in essa. Questa stessa
esistenza è fatta di code anche nei suoi intimi recessi. Per l’uso della
cucina, del gabinetto, della doccia negli alloggi in coabitazione, oltre che -
come avviene dappertutto, ma in Urss più spesso - per le pratiche burocratiche,
per un posto al ristorante o alla mensa. La coda è la vita stessa in forma più
addensata, più concentrata, più esibita. Nei nostri tempi tutti fanno la
coda in tutto il mondo. Fanno la coda i neonati per essere registrati
all'anagrafe, fanno la coda i morti per un posto al cimitero. Unica differenza
qualitativa, a parte la minore o maggiore diffusione del fenomeno, è che,
mentre qui la coda è considerata, forse ingenuamente o forse in malafede, un
disservizio occasionale e contingente, in Urss essa è istituzionalizzata.
L'Urss è il primo paese del mondo ad aver volutamente
scelto
la società fondata sul collettivo anziché sull'individuo: la società di
massa. Prima ancora d'essere la conseguenza, come in altri paesi, dello «sviluppo»,
essa é stata una scelta ideologica fondata su una precisa teoria. La coda,
figlia della società di massa, nel socialismo reale è un istituto.
L'enorme
maggioranza della popolazione fa la coda: è un fenomeno di massa. Alla coda di
Sorokin partecipa gente d'ogni sorta, d'ogni mestiere, d'ogni ceto, ma le
individualità sono amalgamate in un corpo unico, che reagisce, calcola, si
esprime, si muove in modo concorde. Tra loro i componenti della coda non si
riconoscono che per quest'appartenenza: non per nome o altro. Essi si
apostrofano con gli appellativi di «uomo», «giovane», «donna», «ragazza»,
cioè i più anonimi e socialmente indifferenziati, il che corrisponde al
necessario livellamento di tutti nella coda. Siamo di ceti, ambienti, mestieri
diversi, ma qui siamo tutti eguali: perfino gli appellativi «compagno» o «cittadino»
sono usati di rado. I nomi di questa folla esistono soltanto nel rapporto con
il magazzino di vendita e allora, quando si fa la conta, essi erompono come
l'unica possibilità d'affermazione individuale. Non a caso la chiamata occupa
una trentina di pagine nel racconto e non è un arido elenco, ma una specie di
inno dei cognomi russi, ebrei, armeni, georgiani, ecc., che compongono il
mosaico della folla moscovita. Su ogni cognome incombe il suo numero:
1111-2-3-4-5-6-7-8-9... e sull'intera coda come organismo unico incombe la
voce del megafono dello Stato. È esso che le dà istruzioni, ordini, divieti,
autorizzazioni.
Sotto
questa vigilanza, entro questi limiti, la coda può vivere di vita propria:
respira, mangia, dorme, si agita, colloquia con se stessa. Mediante questo
colloquio collettivo l'autore palesa chiaramente gli argomenti e i problemi
che commuovono la strada: anzitutto la ricerca assillante di beni di consumo
necessari o meno; poi i costumi che mutano, la delinquenza, la pressione degli
allogeni (georgiani, ecc.), sesso, figli, rapporti coniugali, vita domestica,
ubriachezza, sport e così via. Due
o tre giovani, studenti e neo-lavoratori della mente, introducono discorsi
diversi che fanno da spia della tipologia culturale diffusa tra le nuove
generazioni attraverso i suoi richiami più sentiti: musica rock, cinema (molto
quello italiano), letteratura di moda (Voznesenskij, Evtušenko, ecc.), arte moderna finora preclusa (Munch,
ecc.). Sotto quest'aspetto, Sorokin ha detto molto meno di quanto poteva dire:
c'erano idoli dei giovani meno banali e più aggiornati da citare. In genere,
a tutti egli fa dire meno di quello che sanno: ha scelto la discrezione. A esser
maligni, si potrebbe rimarcare che ha scelto la stessa reticenza che è della
gente sovietica, in ciò fedele all'oggetto del suo racconto. Questa gente non
è informata più di tanto, aggiornata più di tanto, e, soprattutto, non vuol
dire più di tanto ciò che ha in mente. Al lettore attento non sfuggiranno
certe battute del dialogo in cui si zittisce chi apre troppo la bocca. Con
questo Sorokin ci avverte che egli non si sovrappone: tale è la strada
moscovita.
Nello
stesso modo discreto Sorokin fa sapere che c'è anche una non coda. «Guarda,
una "Mercedes"» «Di chi può essere? Vorrei saperlo...» «Pare una
targa nostra. Non diplomatica...» Poche rapide battute come queste e altre sono
un'allusione perfettamente sufficiente. Non si tratta naturalmente di chi manda
altri a far la coda per sé, magari a pagamento. Si tratta di qualcosa di più:
di quella ristretta società elitaria, che dispone di empori riservati alle
categorie di rispettiva appartenenza e graduati anche secondo il livello da
ciascuno occupato nelle rispettive categorie. È la famosa nomenklatura:
l'alta burocrazia partitica e statale, dirigenti e privilegiati d'ogni sorta,
tra cui anche il mondo ufficiale e affermato della cultura, dallo scrittore al
musicista, dal regista all'attore. Questa società non fa la coda. Con un'altra
breve serie di battute, Sorokin lo dice in faccia a chi la coda la sta facendo.
Un tizio che si presenta come «scrittore» attacca discorso con la ragazza Lena
e le propone di lasciar perdere la coda e andare con lui in un ristorantino
intimo». Segue questo scambio di frasi: «Perché allora voi stavate in coda?»
/ «Uno scrittore deve conoscer tutto». / «Tutto cosa?» / «Beh, la folla».
Lena comprende al volo l'antifona e, non appena ne ha l'occasione, pianta in
asso con una scusa il giovane compagno di coda col quale aveva avviata
un'amicizia e si eclissa. Lui, Vadim, l'aspetterà invano. Lena non torna tra
gli iloti della coda.
Ci
resta Vadim, il quale è forse l'unico vero personaggio del racconto, in ogni
caso l'unico che ci accompagna dalla prima all'ultima pagina e tuttavia neanch'egli
può essere considerato protagonista, poiché il protagonista è la coda:
questo essere collettivo camaleontico e mutante, ma sempre se stesso. Gli
altri e le altre sono sue maschere, figure, forse soltanto voci: appaiono,
scompaiono, quale per sempre, quale per tornare, ma tutte effimere e
intercambiabili. Anche Vadim, forse più che un personaggio è il mentore delle
lunghe ore diurne e notturne della coda. Come s'è detto, egli attacca con Lena,
pare conquistarla, poi viene piantato in asso; si ubriaca con dei compagnoni
casuali, litiga, discetta e disputa di tutto con tutti, mangia, soddisfa bisogni
corporali, finché l'improvviso fortunale lo spinge in un androne. Qui una
gentile e belloccia quarantenne gli offre riparo, conforto e amore. Dopo una
notte di voluttà Vadim scopre che costei non è altro che una direttrice di
reparto del grande magazzino davanti al quale faceva con tutti la coda. Anche
lui raggiungerà per vie traverse il suo scopo: acquistare.
Ma
la fabula, la storia è la cosa che meno conta nel libro di Sorokin, che è il
segmento, colto nel vivo, d'una azione ininterrotta, cominciata assai prima di
lui e continuante dopo la sua ultima pagina. E’ l'epopea della strada - in
questo caso russa, sovietica, moscovita, - senza eroi, senza eventi
straordinari: i čepé,
sempre secondo il gergo contratto fino a sigle di cui si diceva; della strada
mediocre, rozza, avida, stanca, indifesa ma feroce, mugugnante ma imbelle. Essa
non ha principio né fine: dalla plebs della Roma imperiale alla čern' di Mosca Quarta Roma,
da Londra a Città del Messico. Sorokin ha voluto darle la parola, mettere in
campo le sue voci riservandosi una parte assolutamente muta. E allora
anche il gergo ha nel suo testo un'importanza primaria; ma il gergo purtroppo
è quasi sempre intraducibile o lo è malamente se si ricorre a quegli
pseudo-equivalenti dialettali, che però introducono la connotazione d'un
clima, d'una cultura del tutto estranei all'originale.
E
che dire e che fare di fronte all'altra, ancor più azzardata ma importante,
impresa che qui compie Sorokin: il tentativo di darci non solo la naturalità
del discorso nella sua semantica, ma anche nella sua fonetica. II discorso non
è fatto semplicemente di parole, bensì anche di silenzi, fonemi inintelligibili,
sospiri, interiezioni, ecc., che non meno delle parole ne costituiscono
solitamente la struttura. Nessuno parla - come si dice - come un libro stampato,
e, semmai, in occasioni speciali, non certo fra amici o comunque in privato.
Ognuno di noi si sentirebbe non solo ridicolo, ma defraudato di basilari
possibilità comunicative ed espressive. Di questi elementi del discorso la
linguistica ha cominciato a occuparsi non da molto tempo; all'università
della California, li studia il russo americanizzato Emanuel Schegloff, che
definisce le sue ricerche conversation analysis. Vladimir Sorokin è
forse il primo scrittore che impiega questi elementi come mattoni
dell'edificio narrativo. Intendiamoci, la letteratura non li ha mai ignorati, ma
essi vi appaiono come eccezioni rarissime, quasi come espedienti per esprimere
ciò che, le parole non sanno più dire. Sorokin, invece, ci costruisce il
racconto; e, sembra, con esito non disprezzabile. Ciò naturalmente ove la
materia lo consenta e, in particolare, in quella prova di bravura che è la
sequenza sessuale alla fine del libro. Qui, per una decina e più di pagine, i
mugolii, i gemiti, i suoni indistinti sono obbligati a raccontare. Da
essi il lettore deve intendere ciò che accade; e che è scandito in modo
preciso, secondo un ritmo scelto dall'autore. II quale, con questi strumenti,
con la riproduzione dell'espressione fonetica extrasemantica e con l’uso di
nomignoli ovvi e ricorrenti, ha voluto anche offrirci un nuovo modello di
quella spersonalizzazione e banalità che affliggono i componenti della coda
in pubblico come nell'intimità. Così si chiude il libro: con questa
straordinaria ma illusoria scena d'amore tra un gagliardo che può
indifferentemente essere un paren' russo o un boy statunitense,
e una donna diversa da lui solo per l'età, dove lui si distingue da lei solo
perché l'accento dei sospiri è ascendente e acuto anziché discendente e
modulato, dove le colonne si ribaltano secondo le posizioni; dove, infine,
tutto per Vadim si vanifica al mattino sotto la perdurante angoscia della coda.
La
quale, fuori, continua. Continuerà lì e altrove senza sapere che cosa otterrà:
è un'attesa senza fine, ma anche una speranza, perché nessuno attende se non
ha un minimo di speranza nella sua attesa. Forse, aspettando, qualcosa arriverà;
durante l'attesa stessa accadono cose, magari mutamenti.
Giugno 1987
II
testo di questa postfazione è apparso come introduzione alla prima edizione
italiana di La coda (Guanda, 1988).
[i] Oggi,
dopo che Iosif Brodskij ha avuto il premio Nobel per la poesia, qualcosa di
lui è uscito e altro uscirà. Nel 1972, costretto a emigrare dopo il lager
come «parassita», egli scriveva: «I poeti ritornano sempre: o di persona
o sulla carta».
[ii] I. Compton-Burnett, Madre o figlio, Milano 1973, pp. 1, 2.
[iii] P.
Vajl'-A. Genis, Sloslagatel'noe naklonenie istorii, «Grani»,
Frankfurt/M., 1986, N. 139, p. 156.
[iv] Ivi, p.157.
[v] B. Pasternak, Il Dottor Zivago, Milano 1963, p. 399. 181
[vi] A. Jacoviello, Lettere dalla nuova Russia, Milano 1987, p. 286