Pietro A. Zveteremich

Aggiornata il 29 Maggio 2009  •  1 Commenti

Sergej Klyčkov: un altro scrittore russo da dissotterrare


Ci troviamo sempre qui: a dissotterare strato dopo strato la cultura russa, negletta per decenni, sepolta dagli intrusi, per i quali essa era ed è una preda che scottava e ancora scotta. Questa volta ce ne dà l’occasione la ristampa in Francia (Ymca Press, 1982) del romanzo Sacharnyj nemec (il tedesco di zucchero) di Sergej Klyčkov [pr. appr.: Klűsckóff], un maestro della parola stilistica.

Klyčkov era però un nome adottato dalla famiglia, vergognosa di chiamarsi Lešenkov: un cognome di predestinazione, perché porta in sé i lešie, gli spiriti dei boschi dei quali sono pieni i libri di poesie di Klyčkov e i suoi affascinanti romanzi. Egli era nato da famiglia di contadini–calzolai nel villaggio di Dubrovki (e dubrava significa “querceto”), vicino alla illustre città di calzaturieri, Taldom che si trova a poco più d’un centinaio di chilometri da Mosca. “…Mia madre mi partorì in mezzo ai lamponi del bosco di Čertuchino avendo confuso le date”. Era il 1899, ma “il bosco allora da noi cominciava, intatto e misterioso, davanti alla finestra; nella tormenta le alci passavano davanti alla porta di casa; nel bosco c’erano prodigi d’ogni sorta e, a ricordarne oggi, tutto allora era come inventato…” – scriveva Klyčkov nel 1926 - . Ma quel suo “oggi” (già mutato) del 1926, al giorno d’oggi, è degradato al punto da esser così visto da un poeta contemporaneo, Genrich Sapgir: “Tutto ingombro d’alghe scorre il Kljaz’ma morente, / Tra l’erba sala si scorge una bambola annegata. / … Che è tutto questo? Bambola, manifesti, baracche? / Un cavallo biancheggia in mezzo al fiume / In questo paesaggio non più umano” (‘Metropol’, 1979; cfr. “Nre”, N.14, 1979). Il fiume di Dubrovki è la Dubna, ma la scena non cambia: è il paesaggio della Russia dell’industrializzazione selvaggia e della distruzione delle foreste e di tutta la natura (e si legga in proposito il rivelatore libro di B. Komarov edito in russo in Germania nel 1978 e oggi finalmente tradotto in italiano).

Quel paesaggio favoloso dell’infanzia, quell’immenso e ancor intatto mondo contadino, quell’ancor vergine e vitale cultura contadina, quella lingua russa del folklore e del popolo, trasmettendosi, come era stato per Puškin e tanti altri, attraverso le babuški e le njani (le  donne e le ‘tate’), depositarie di questi valori, fecero il Klyčkov poeta e poi narratore. Ebbe anche la ventura di esordire nel 1911, quando la letteratura e l’intera cultura russa vivevano quel che è detto il “secolo d’argento”, erano fervide di pensiero, di ricerche, di invenzioni. Si era appena conclusa la grande stagione del simbolismo, ma Blok, Ivanov e Belyj giganteggiavano. Blok cantava la izbjanaja Rus’ (la Russia delle isbe); Belyj aveva appena stampato Il colombo d’argento; Sologub il Demone meschino e la Leggenda creata, Remizov aveva fatto rinascere lo skaz e Rozanov scriveva i suoi geniali aforismi. Skrjabin aveva composto Il poema dell’estasi; Stravinskij, L’uccello di fuoco e la Sagra della primavera; Vrubel’ e Roerich dipingevano la Russia mitica; Čurlionis, Gončarova, Larionov, anche Malevič e Kandinskij, creavano il “primitivo russo” e preparavano l’astrattismo. Il teatro con Djagilev, Somov, ecc. era un fuoco d’artificio continuo.

Non era, come fu detto, semplicemente una moda del russkij narodnyj stil’, lo stile popolare e nazionale russo. Il fenomeno era più profondo: la giovane Russia si voltava a cercare anche nel passato le proprie origini, la propria identità. La stessa programmatica antologia “Vechi” e il dibattito filosofico religioso su basi moderne erano di ciò un momento. La vecchia Russia dell’urto frontale tra il massimalismo anarcopopulista  e l’assolutismo fondiario-burocratico era finita. Il fallimento della rivoluzione del 1905 aveva anche posto termine a molte illusioni, ma soprattutto al dominio delle ideologie e dei feticci dell’800, di cui il bolscevismo leniniano sarà un fatale rigurgito. Ormai il capitalismo rinnovava il paese, penetrava nelle campagne, dove nasceva i contadino-imprenditore (già allora chiamato kulak). Si era formata una élite borghese. Doveva sorgere una nuova nazione: moderna, europea.

Dopo l’istituto reale a Mosca e un soggiorno in Italia, Klyčkov fu portato in letteratura da Modest Čajkovskij, il fratello del musicista, e si ritrovò ben presto a fianco dell’altro “poeta contadino” Kljuev, starover ossia della setta dei “vecchi credenti”; più tardi anche di Esenin, Orešin e altri poeti contadini. Ma dalla Russia recondita degli starovery, delle sette, veniva lui stesso e tutta la sua opera ne è suggestionata, nutrita, animata nelle immagini, nella cultura, negli oggetti, nel linguaggio stesso, come lo è anche da una tradizione ancor più antica: quella della Rus’ primigenia, pagana, panteista e animista con tutte le sue più remote componenti che ascendono al retaggio hindu, iranico, sciamanico, finnico, bizantino, tàtaro.

Questa materia immensa, piena di echi misteriosi, di lontane reminiscenze, di arie stregate, di un universale abbraccio tra uomo e natura, di realtà apparenti e di realtà invisibili, di labili confini tra esse e di metamorfosi, della pulsione vitale dei boschi, dei campi, delle acque e dei loro abitanti, siano vegetali o animali o esseri soprannaturali, di voci, di venti, di luci lunari, di oscurità notturne, di balenii, di spiriti, di demoni e di santi agresti, di sogni e di canti trova in Klyčkov forse il suo ultimo, certo il suo più ammaliato ed estatico traduttore in letteratura: il più singolare e autentico sulle orme di Gogol’, di Leškov, di Mel’nikov-Pečerskij, attraverso Remizov e anche Andrej Belyj, in parte parallelamente a Prišvin, Čapygin, Neverov e altri, ma con una capacità più intensa e condizionante di sublimazione sulla pagina di quella Russia, però, che scrittori d’oggi come Astaf’ev, Rasputin, Solouchin e altri si sforzano di raccogliere briciola a briciola, di ricostruire almeno sulla pagina pietra su pietra. Ecco allora che si ritrovano le arcate d’un ponte che collega, al di sopra dell’enorme vuoto creato con l’annientamento fisico dei contadini, dei villaggi, delle chiese, delle foreste, dei campi dal regime bolscevico, la derevenskaja škola, la “scuola contadina” d’oggi di cui sulla nostra rivista s’è già scritto (“Nre”, N. 29-30, 198) con quella di ieri.

E’ quasi mezzo secolo che in Urss non si pubblica Il tedesco di zucchero dopo la sua seconda edizione del 1934 e quasi sessant’anni sono passati dalla sua prima edizione e dagli altri romanzi e libri di poesie di Klyčkov. La Kratkaja Literaturnaja Enciklopedija (Breve Enciclopedia Letteraria) lo ricorda (t. III , 1965) in una sua breve voce che termina con l’usuale formula burocratica in uso per tutte le vittime: “Nel 1937 fu illegalmente soppresso. Riabilitazione postuma”. Sicché oggi, a parte la recente ristampa francese, i libri di Sergej Klyčkov sono praticamente fuori circolazione.

Eppure per quasi un quarto di secolo di lui si occuparono letterati illustri come Brjusov, Gumilëv, Gor’kij, nonché, naturalmente molti critici come V. L’vov-Rogačevskij, V. Polonskij, A. Voronskij, F. Žic, G. Lelevič, I Mašbic-Verov, O. Beskin. Tutti gli riconoscevano “qualità artistiche alte e indubbie. Stupenda e pura è nello scrittore la nostra lingua nativa… Lo scrittore ha saputo mostrare la Russia profonda nella sua carne. Essa sorge dinanzi a noi come un’intatta e segreta foresta di abeti, fresca e odorosa”. (Voronskij). Anche Mašbic-Verov e Beskin su questo erano d’accordo, ma, con la funesta E. Usievič, furono i suoi persecutori, “smascheratori di classe”, fino a farlo espellere dalla letteratura, confinare nel ’34, poi imprigionare per sempre come “scrittore kulak”. Cominciava sul finire degli anni Venti l’epoca in cui la critica letteraria provocava quelle che, con sinistra sigla, erano dette le orgvyvody (“deduzioni organizzative”), ossia il bando civile, l’arresto e quel che ne seguiva.

Già stimato e quotato per le sue raccolte poetiche, nelle quali, giovandosi della lezione del simbolismo russo, ricreava letterariamente i motivi della canzone e della fiaba popolari, evocava il mondo favoloso dei miti folklorici, nel 1923 Klyčkov aveva dato avvio a un grandioso progetto narrativo: la “trilogia delle trilogie”. Dovevano essere nove romanzi che abbracciassero la vita delle campagne dagli anni Sessanta dell’800 alla contemporaneità con il titolo generale di Život i smert’ (La vita e la morte). Riuscì a scrivere e a pubblicare nel 1925-’28 soltanto tre dei nove romanzi, e precisamente Sacharnyj nemec (Il tedesco di zucchero, 1925), Čertychinskij Balàkir’ (il ciancione di Čertuchino, 1926) e Kniaz’  mira (Il principe del mondo, 1928). Poi gli attacchi ideologici e politici, l’atmosfera pesante che gli si creava attorno lo indussero a concentrarsi di nuovo sulla poesia con le raccolte Otkrovennaja lira (Lira sincera, 1928) e V gostjach u žuravlej (Ospite delle gru, 1930) e quindi lo costrinsero a lavori di traduzione negli ultimi anni prima dell’arresto. La sua poesia, che peraltro nutre anche la sua prosa, merita una certa attenzione, ma il più alto esito Klyčkov lo raggiunse con i romanzi nei quali manifesta tutta la propria originalità.

Tra essi Il ciancione di Čertuchino è certamente il più ricco, profondo e compiuto. E qui occorre dire due parole sul titolo. Čertuchino è un toponimo, e questo è semplice, ma contiene l’etimo čert (diavolo), e questo ha già un significato. La parola Balàkir’ (che traduciamo con “ciancione”) è invece coniata dall’autore utilizzando il termine balàkar’ e il verbo balàkarit’, che, secondo il fondamentale Tolkovoyj slovar’ živogo velikorusskago jazika di V. Dal’ (III izd., S.Ptg., 1903), significano rispettivamente “chiacchierone” e “scherzare, buffoneggiare”. Sicché l’equivalente più appropriato in italiano sembra doversi trovare in “ciancione, ciancioso, cianciere, cianciatore”, che, secondo il Dizionario della lingua italiana del Tommaseo congiungono in sé, come la parola di Klyčkov, i significati di “scherzare, burlare, perder tempo in cose vane, parlare indarno”. Come ipotesi di lavoro scegliamo dunque per ora il “ciancione”, il quale è Pëtr Kirilyč Penkin, detto anche “chiacchierone”, “fanfarone”, “fallito”, “biondo, riccioluto… per il quale nella vita tutto era come lo è per tutti, solo che a lui tutto pareva diverso…”. Di lui però si prende cura Antjutik, uno di quei lešie, che “oggi non ci sono più, perché la gente non ci crede, ma prima c’erano” e nascevano dalle ceppaie di albero stroncati dal fulmine. Comincia così la sua meravigliosa avventura, che gli fa conoscere il fatato regno subacqueo delle rusalki, sirene dei fiumi e dei laghi con lunghe chiome d’oro o verdi, occhi di basilisco e coda di pesce; lo trascina in groppa a un’alce dalle corna d’oro fino al mulino del vecchio settario Spiridon che coltiva la propria fede in una cappella sotterranea. E’ la vera fede cristiana degli starovery perseguitati, seguita con deformazioni pagane e animistiche dai mužiki, che con le loro ciocie di tiglio non possono andare nel paradiso della Chiesa ufficiale. Spiridon si sdoppia con Antjutik, conosce la saggezza del libro Velikie Usta (Le grandi labbra), che altro non è se non la natura come libro aperto. Egli spiega al Ciancione, che l’uomo è “una creatura bi-ipostatica”, ossia di spirito – l’anima alata come l’uccello – e di carne: “nell’uomo lo spirito e la carne, come l’acqua e il ghiaccio, sono due leggi d’una medesima sostanza ed entrambe si debbono adempiere”.

Il Ciancione, Maša e Fekla figlie di Spiridon, la strega Ul’jana, il Cocchiere e tutti i mužiki vivono in comunione con le legioni di lešie e gli altri spiriti, con le alci, le orse, le lepri danzanti in festa, con i siriny (uccelli col volto e seno di donna), le rane, con gli alberi, con l’erba “che ne sa più dell’uomo” in un mondo naturale, “dove c’è un solo mistero: che in esso non v’è nulla di non vivente”. Ma la luna è la sovrana protagonista del romanzo (“Oh, tu, luna, solicello zigano!”) e le notti sotto la sua luce, resa intermittente dalle nubi, vedono azioni che sono sogni e sogni presaghi. Il mondo onirico e quello reale si intersecano come i due piani del racconto: quotidiano e fantastico-fiabesco, surreale e grottesco. Tutto è immerso in una condizione cosmica, non storica, ma il “diavolo di ferro”, la città, già minaccia l’antica, sapiente e sapida vita dell’uomo in concordia con la natura. E qui bisogna ricordare N. Fedorov, il pensatore utopico-panteista dell’800, che tanta influenza ebbe anche sulla letteratura.

Se la vicenda del Ciancione di Čertuchino è collocata nell’ultimo decennio del secolo, quella del Tedesco di zucchero (scritto nel 1923-’24), si svolge in gran parte tra i soldati della 1ª Guerra mondiale sul fronte della Dvina, dove Klyčkov fu mobilitato dal settembre 1914 al marzo almeno del 1917. Ciò per quanto attiene al piano reale, che qui è più determinato e circostanziato, mentre in ogni caso anche qui il piano onirico-fantastico contiene le ragioni essenziali del libro. Come osserva M. Stepanenko in un suo saggio uscito negli Usa sul Klyčkov, i soldati qui sono prima di tutto “i mužiki di Čertuchino travestiti” e l’elemento autobiografico è fortemente marcato. Ma perché il “tedesco di zucchero” del titolo? Perché lo zucchero è un prodotto industriale, dunque un veleno, e lo portano i tedeschi. Già nel titolo, dunque, c’è polemica contro la città, nata “dallo sbadiglio del padrone-signore, tedio della mente, pietra sulla tomba dell’anima non vedente: galleggia in questa scienza la ragione come un gattino cieco in un secchio”. Invece: “le donne e le ragazze vanno nel bosco per fragole e leggono il grande libro”, “…e non sanno che così imparano l’abbecedario del saggissimo mondo”. E’ il libro della natura, Zolotoye Usta (Labbra d’oro), “perduto nel bosco oscuro”, lo stesso del Ciancione di Čertuchino. Anche qui il protagonista, soprannominato “Il Leprotto”, è un “sognatore”, un uomo strano, e la luna, le “nebbie lunari” dominano tutto il racconto.

L’utopia contadina è qui espressa nella fiaba del regno di “re Achlamon”, un racconto nel racconto, come lo era, con il medesimo procedimento, nell’altro romanzo la storia di Spiridon e di suo fratello alla ricerca della verità religiosa, fino al monte Athos. Anche qui Dio non c’è; Dio è lontano come lo Zar dal mužik, tutta la metafisica del quale è animistica. Pagine stupende, digressioni liriche sulla natura sono qui non meno frequenti che nel Ciancione di Čertuchino, che deve tuttavia considerarsi più maturo non soltanto nella composizione, ma anche nella lingua, che qui risente ancora di voluta stilizzazione; e, in genere nell’autonomia da modelli letterari, in primo luogo Belyj. Sempre però è il russo corposo e tuttavia limpido del favellare del popolo, concreto, e tuttavia sfumato, allusivo, fragoroso e tonante, ma anche sottile e trillante nel suo modularsi, proprio come il folklore russo ama rappresentare il canto del solovéj, l’usignolo, l’uccello più amato; il russo che celebra nei romanzi di Klyčkov, come in certe poesie di Blok e poi di Esenin, il proprio trionfo anche sonoro oltre che  lessicale e svolge quindi una funzione determinante. Giacché, continuando la grande scuola di Gogol’, Leskov e più tardi di Remizov, egli adotta la tecnica dello skaz: imitazione della viva narrazione d’un testimone o partecipe del fatto, solitamente contadino o uomo del popolo, immedesimazione in esso e nel suo linguaggio, nel linguaggio di chi sta dentro quel mondo, e dunque elemento di primaria importanza costitutiva dell’opera. E’ la letteratura delle mimesi. Tanto è importante lo skaz nella letteratura russa classica e contemporanea da aver generato una biblioteca di studi.

Non c’è dubbio che esso caratterizza tutta la narrativa klyčkoviana, compreso il terzo e ultimo romanzo, Il principe del mondo (1928), in cui pure sono evidenti e dolorose le concessioni alle richieste di “contemporaneità” e di “realismo” da parte della critica. E comunque il fantastico, il favoloso, l’onirico, il grottesco vi hanno una parte condizionante, resa dall’autore più accettabile per il fatto che l’azione si svolge qui in tempi antichi. Il “principe del mondo” è il rogatyj, la “bestia cornuta”, il Diavolo; e un demone s’incarna nel soldato fuggiasco, nel pellegrino Michajla, in sacrestano, in diacono, in generale. Anche qui tutto accade, tra un formicolare di creature soprannaturali, sotto “la luna, nostro antico stregone”, alla cui luce “gli oggetti cambiano di posto e mutano continuamente aspetto”. Anche qui il liquido vitale della poesia abbrevia le pagine; e la geografia, pur localizzata, è immaginaria, favolosa, iperbolica; la realtà è irreale e il fantastico si tocca con mano. Anche qui, e ancor più, la crittografia è un procedimento costante, sistematico, maneggiato con alata sottigliezza, con la stessa finezza con cui Klyčkov ha sempre eseguito i suoi ricami e i suoi cesellati con le parole.

Naturalmente questo non lo salvò. Per i critici della faziosità e dell’intolleranza, cui il potere politico aveva dato carta bianca, l’opera intera di Klyčkov, ma soprattutto i suoi romanzi furono manna da divorare. Ma oggi anche questo grande degli anni Venti ritorna. Uno dei rari critici dell’epoca non preconcetti, Vjačeslav Polonskij, l’aveva scritto sul “Novyj Mir” del febbraio 1929: “Klyčkov è uno straordinario prosatore espresso dalla campagna russa… Il futuro storico della letteratura lo ricorderà”.

Pietro A. Zveteremich