Pietro A. Zveteremich

Aggiornata il 29 Maggio 2009  •  1 Commenti

Gli anatemi per Živago

Il centenario della nascita di Pasternak


L’Unione Sovietica oggi celebra il centenario della nascita di Boris Pasternak, e dico Unione Sovietica e non Russia, perché l’ufficialità dell’evento investe le istituzioni e lo stesso Stato ancora sovietico. Quello Stato del quale proprio Pasternak aveva scritto che è “inverosimile” e poteva avere come “cittadino” unicamente Majakovskij. Ma quest’unico cittadino, il poeta Majakovskij, suo amico, fu da quello Stato indotto al suicidio.

Degli altri grandi di quella generazione della poesia russa, ossia la generazione del ’90 dell’altro secolo, Pasternak e Anna Achmatova furono gli unici a morire nel proprio letto. Mandelštam morì in un lager, la Cvetaeva si impiccò per disperazione come già Esenin. Essi sono i grandi a livello mondiale di una stagione della poesia russa che offre oltre una decina di nomi importanti da Chlebnikov a Zabolotskij, da Kljuev a Klyčkov, da Gumilev a Chodasevič.

Tutti costoro, senza eccezione, sono iscritti a lettere d’oro nel martirologio della cultura russa nel secolo più crudele che essa abbia mai conosciuto, in confronto al quale blando era il regime degli zar. Tutti hanno pagato di persona: chi con la morte, chi con la prigionia, chi con la messa al bando. Tale fu anche la sorte di Boris Pasternak, non meno degli altri dilaniato dalla tragedia del Paese. Fu questa tragedia a spingerlo a scrivere Il Dottor Živago, come una testimonianza e un monito, benché sapesse ciò che rischiava: lui già malvisto e avversato dalla cultura ufficiale.

Ma questo libro, torturandolo in patria, gli diede il premio di una subitanea e pur duratura celebrità mondiale che i suoi pari in poesia non conobbero in egual misura e in vita.

Prima del romanzo, Pasternak era noto anche all’estero come un importante poeta del Novecento russo, ma soltanto a un pubblico d’élite. Anche in Italia, non meno e non dopo che in altri paesi, era stato tradotto e commentato in raccolte e su riviste fin dagli anni Venti da E. Lo Gatto e R. Poggioli e altri, fra cui Giuseppe Ungaretti in un prezioso volumetto di versioni. E questo interesse era continuato sul “Politecnico” di Vittorini e sulla “Fiera letteraria”.

Ma Il Dottor Živago fu un’altra cosa: lo fece conoscere al più largo pubblico e si può dire che a quest’ultimo diede altresì la cognizione della sua lirica innanzitutto con i versi in fondo al romanzo. Su questa scia in Italia ebbero risonanza le antologie Poesie di A. M. Ribellino (1961), tutti i poemi di B. Meriggi (1968), e la mia Poesie inedite (1966). Fiorirono su di lui gli studi critici.

Le accoglienze in Italia


Leonid Pasternak - Ritratto dei figli Boris e AlexanderE dunque come accolse Pasternak la cultura italiana quand’egli si rivelò ai più con il suo Dottor Živago? Si deve dire che gli scittori non si tirarono indietro. Alberto Moravia in un ampio articolo indicò in esso “un’opera composita e potente che ha pochi riscontri nell’attuale narrativa europea” (“Cor.Sera”, 11.1.1958); sullo stesso giornale (19.3.1958) Riccardo Baccelli scriveva: “Mi sembra che la maggior bellezza del libro stia nella forza ferma e serena, quietamente appassionata, della convinzione e del pensiero”.

Guido Pioveve affermò senza esitare su “La Stampa” che si trattava “della più grande di tutte le opere contemporanee e che significava una svolta nella storia della letteratura, scotendo tutta la nostra concezione ‘moderna’ del sentire, concepire e scrivere”. E ribadì in successivi articoli questi concetti. Tommaso Landolfi su “Il Mondo” (7.1.1958) non fu da meno: “Libro bello e importante… checché abbiano fatto per rendercelo inviso, fin piegandolo a indicazioni politiche… di tanto più bello e importante in quanto, di questi tempi equivoci, non vuol parlarci che per se stesso e colla voce suprema della poesia”.

Ma vi furono anche letterati della sinistra “impegnata” come allora si usava dire, comunisti, che seppero veder oltre i pregiudizi ideologici. Gianni Toti, su “Il lavoro”, organo della Cgil, parlò del Dottor Živago come di un capolavoro e invitò i lavoratori italiani a leggerlo e meditarlo, considerando inoltre un onore il fatto che fosse uscito per la prima volta in Italia.

Franco Fortini ebbe parole molto istruttive e profetiche: “Quando Sartre dice che Živago non può dir nulla ad un giovane sovietico, ha solo una superficiale ragione. Anche da noi un giovane può credere che Hemingway o Durrel siano più ‘moderni’ e ‘veri’ di Tolstoj o Manzoni; ma comincia a capire qualcosa solo quando comincia a capire che non è così. Domande e risposte di Pasternak possono sembrar di ieri soltanto perché sono anche di domani” (“Cor.Sera”, 31.5.1960).

E il leader del futuro “Gruppo ‘63”, Edoardo Sanguineti, ricorderà poi: “Io guardavo all’antinarrativa. Tuttavia, anche chi non consideri Il Dottor Živago come un grande romanzo del nostro secolo, non può non pensare al suo significato dirompente: superava i vecchi schemi del realismo e dell’apologetica con una visione problematica” (“La Stampa”, 10.1.1987).

Stranamente in quei giorni “LUnità” non si pronunciò. Si seppe poi che la mano sorniona di Togliatti aveva stoppato l’articolo di Mario Alicata, membro della direzione Pci e capo del settore culturale, a cui diede però via libera al momento del Premio Nobel. “Un vero e proprio pamphlet politico… - scriveva Alicata - …un romanzo schiettamente politico… e apertamente controrivoluzionario… Doveva proprio dall’Unione Sovietica… partire un appello all’inutilità della rivoluzione socialista?… E’ naturalmente vile e sciocca menzogna quella che la espulsione dall’Unione Scrittori… significhi per Pasternak non diciamo la fame – dato che questa condizione non esiste per nessuno in Unione Sovietica – ma l’impossibilità di continuare a scrivere, pubblicare i suoi scritti…”.

Ed oggi “L’Unità” (9.2.1990), dedicando al Dottor Živago un intero e per certi aspetti lodevole paginone (per il quale ha chiesto pure a me un documento d’epoca), non si sogna tuttavia di rammentar nulla di quelle proprie posizioni. Come si trattasse di un altro giornale. In Urss oggi sconfessano i loro Surkov-Krusciov-Suslov; in Italia, il Pci tutela ancora come santini gli Alicata-Togliatti e C. A “L’Unità” anche Pasternak serve solo per rifarsi una faccia.

Tornando all’impatto del Dottor Živago quando uscì in Italia nel 1957, c’è ancora da notare come la critica ufficializzata fosse reticente, quasi timorosa di prender partito. Paolo Milano (“L’Espresso”) “prova un forte imbarazzo”; Pietro Citati (“Il Punto”, 21.12.1957) sente invece subito d’aver di fronte “di quelle rarissime opere che ritrovano, dietro la storia, le radici della esistenza”, ma, come Milano, ha molti “dubbi”. Ed essi, dice, vanno imputati alle “mani rozze” del traduttore. Come se tutti, da Piovene a Landolfi, ed egli stesso, non avessero potuto leggere il libro soltanto perché trasposto da quelle “mani rozze”, nessuno di essi essendosi mai dato pena di studiare il russo.

E citavano a esempio le traduzioni della francese “Pleiade”, che sono una vergogna dell’editoria internazionale con i loro tagli, riassunti, riscrittura perfino di Dostojevskij e altri. Davvero, in Italia la boria specie di certi toscani che già beffeggiò il Cajumi, è inestirpabile. Che importava a loro che già nel dicembre ’57 G. H. G. Norman del “Times” di Londra, che conosceva e il russo e l’italiano, avesse scritto a Feltrinelli per congratularsi che il traduttore avesse portato a buon fine così egregiamente e rapidamente un compito talmente arduo?

Un romanzo rivoluzionario


Per finire, oggi che nei moltissimi articoli dedicati a Pasternak e in particolare al Dottor Živago, di esso si insiste a parlare come d’un romanzo soggettivo e “lirico”, occorre nuovamente precisare che, tutt’al contrario, come già scrissi io nella recensione interna per l’editore, e scrissero meglio di me al suo apparire Sanguineti e Fortini, oltre che Piovene, si tratta di ben altro. Si tratta di romanzo di idee, che muove il pensiero, che impartisce al lettore (non soltanto in Unione Sovietica) la fondamentale lezione di pensare con la propria testa, di rivedere tutto (se stesso, la propria storia, il proprio ambiente e società) con i propri occhi e di rimeditarlo interiormente.

Un romanzo, dunque, rivoluzionario e non “controrivoluzionario” se rivoluzionario è acquisire coscienza e consapevolezza e non obbedire alle proclamazioni dei tribuni.

Pietro Zveteremich


da "La Sicilia", 15 febbraio 1990