di Anna Condello
"Sera d'autunno. Un lungomare in lontananza delimita il dipinto di un
tramonto affascinante. Il suo fuoco di colori non aiuta a riscaldare il corpo
scosso da brividi che sembrano il preludio di una più forte emozione: il
tremito degli occhi che guardano i suoi occhi, della mano che stringe la sua
mano, delle orecchie che odono la sinfonia dei suoi versi, del cuore che ama
tutto questo". Quando, poco più di tre anni fa, nel novembre del 1992,
tentai di imprimere sulla carta le mie prime sensazioni di quell'indimenticabile
incontro con il poeta Iosif Brodskij, ciò che ne saltò fuori fu questa
(patetica?) dichiarazione d'amore.
Ma quando qualche giorno fa appresi della sua scomparsa, adottai l'idea di
Brodskij secondo la quale nelle "cose" non rimangono impressi solo
ricordi di gesti consueti ma anche tracce di sentimenti, degli sguardi, dei
pensieri che entrano a contatto con una data "cosa". E così il
profondo dolore ed il senso di panico mi indussero a leggere queste righe, ad
ascoltare la sua voce sul nastro, a toccare il foglio dei suoi versi autografi,
a guardare la foto che ci vide insieme, quasi a recuperare la sua presenza.
Ricordo ancora lo stupore misto ad euforia quando con l'arrivo di Brodskij sulle
sponde del nostro Stretto (in occasione della consegna del Reghium Julii '92),
mi si delineò l'eventualità di conoscere personalmente il poeta. Per niente
intimoriti (io e due miei colleghi) dall'annunciata difficoltà da parte degli
organizzatori di poterlo avvicinare; quasi sicuri che alla richiesta, espressa
in russo, di un'intervista fondata esclusivamente sulla sua poesia, avesse
acconsentito, ci ritrovammo a contatto non solo con il poeta ma anche con
l'uomo. Con un uomo "grande" ma nel contempo umile, che non ebbe
nessun problema ad accoglierci nella sua camera d'albergo, a sgranocchiare
chicchi di cioccolato ed a scambiare domande e risposte per due intensissime
ore.
La circostanza fortuita e la disponibilità del poeta mi permisero, per così
dire, di "discutere la tesi" con Brodskij stesso. Preziose tracce
interpretative mi furono offerte nell'intervista, che confrontai con lo stato
attuale della critica brodskiana, nonché con la poetica desumibile delle opere
stesse del poeta.
All'indomani della sua morte, richieste di pubblicazioni, giuntemi da più
parti, mi videro riluttante ad "approfittare" della notizia. Spero oggi
invece di infondere nei lettori messinesi un briciolo di curiosità, di indurli
a conoscere meglio colui che, per me, resterà una delle voci più grandi di
tutti i tempi. Non parlerò quindi né della critica né della poetica, ma
lascerò posto solo alle sue parole, pubblicando stralci dell'intervista.
Quando Lei scrive, ritorna su quanto ha già scritto, modifica qualcosa, lavora cioè sui versi?
Talvolta si, talvolta no. Più spesso no. Perché tornare su ciò che hai
scritto, specialmente dopo un mese, è impossibile. Sei già un'altra persona.
Lo scorrere del tempo ti fa allontanare continuamente da quello che eri prima.
Tuttavia penso di essere un poeta al massimo grado formale. Ogni mia opera
artistica ha la sua propria forma. Non dico a me stesso: "scrivo versi di
quella o questa dimensione", perché quando inizio a scrivere non c'è
possibilità di scelta. Non sei tu che scegli la forma. Sono i versi stessi che
la dettano. Ci sono a questo proposito dei versi meravigliosi di Pasternak:
Non io scrivo versi / Essi come un libro scrivono me / E il corso della vita
li fa nascere.
Quando scrivi non scegli un metro, ma visto che già ne usi uno, cerchi di
ottenere con esso una precisa perfezione della forma. Penso di essere non solo
formale, ma formale in modo folle. Non solo per fare un'impressione favorevole
sul lettore, ma per annichilirlo.
Molto spesso i critici paragonano le sue poesie...
[Qui Brodskij interrompendoci e come seguendo un suo pensiero dice]: Oh, la poesia! I versi possono essere versi, ma possono non essere poesia. La poesia è un tale miscuglio di rivelazione, di penetrazione, in generale, di comprensione delle cose. I versi sono, semplicemente, il mezzi della poesia, sono "il mezzo di trasporto". Sono come un treno. Dove essi ti porteranno, lì sarà la poesia... Ma possono anche non portartici.
Molto spesso i critici la paragonano con i poeti metafisici, ad esempio John Donne. Lei ritiene che si possa fare tale paragone?
Paragonarmi a Donne è impossibile. Sono un poeta più povero di Donne, sono meno intelligente, meno profondo e meno colto. Il paragone non è molto fondato. Il fatto è che una volta ho scritto una lunga poesia dal titolo "Grande elegia a John Donne" e tutti si sono buttati in quella direzione. Ed effettivamente i versi che ho scritto e che scrivo non sono molto simili a quelli a cui siamo abituati nella poesia russa. Ma questo non significa che sia simile a Donne. Molto spesso i critici, i giornalisti, dicono che nella mia poesia c'è un'influenza inglese. E' un pensiero semplicistico, dal momento che vivo in un paese anglofono da vent'anni. L'influenza c'è, ma non so in che cosa consista. Credo che chiedermi questo sia assurdo, perché rispondere a questa domanda è come per il gatto acchiappare la propria coda.
Non l'attrae l'idea di ritornare in Russia?
Si
e no. Nello stesso giorno mi capita di essere attirato e non. E' come ritornare
dalla prima moglie. Da un lato è interessante, dall'altro non molto... scherzo.
Temo che adesso arrivare con questa aureola che mi ritrovo, si trasformi in un
giubileo popolare; ed essere oggetto di esultanza non mi piace affatto: tornerò
e cosa succederà? Andrò per le strade con le tasche piene di soldi, vedrò la
miseria e non capirò niente, sorriderò e saluterò. E dopo cinque, sei giorni
salirò su un aereo e sparirò, senza che questo abbia avuto alcuna influenza
sulla mia coscienza. Mostrarsi felice, quando la massa della gente soffre. Io
sono sempre stato uno come tutti ed ora apparirei speciale.
Sente una grande differenza fra le sue poesie recenti e quelle dei primi anni?
Si,
hanno completamente un'altro suono, un'altra tensione vocale. I primi versi
raggiongono in se stessi il loro risultato, è come se "pestassero".
Pesano sulla psiche del lettore, cercano di soggiogarlo. Ricordo che erano come
un carro armato, in modo che il lettore non sapesse dove nascondersi, che non
potesse scansarli, che essi diventassero una realtà fisica oggettiva.
Gli ultimi versi hanno completamente un altro principio. Essi devono ammaliarvi
con qualcos'altro, con la loro piena neutralità. Inoltre la realtà è che ogni
carriera letteraria inizia da un'aspirazione interiore di automiglioramento, da
una aspirazione alla santità se volete. Nello sviluppo delle capacità creative
risulta molto spesso che la vostra penna sia di gran lunga più dotata della
vostra anima. E molto spesso diventate scrittore, poeta di professione. Iniziate
a sottomettervi al pubblico, al pubblico piace tutto di voi e voi siete parte
del pubblico, della letteratura. E l'anima in un certo senso rimane in secondo
piano. E' necessario uno sforzo inverosimile perché queste forbici (dell'anima
e del talento) si uniscano e si mantengano insieme; uno sforzo di cui io stesso
penso di non essere capace.
Quando per esempio Gogol' si rese conto di questo bruciò la seconda parte di
"Anime morte", ed è per questo che bisognava farlo santo; se io fossi
ortodosso lo farei. E quindi penso che un poeta si evolve non soltanto perché
non vuole ripetersi, ma soprattutto perché è la sua anima che si evolve. Ciò
che l'anima (o il tempo se vi pare) suggerisce al poeta è più importante di
ciò che lui stesso sia capace di fare.
da "L'isola" del 9/2/1996
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